La scena: una classe di scuola elementare visita gli scavi di Ostia Antica; passando su Via degli Augustali nei pressi del Santuario di Bona Dea, vedendo gli studenti di Archeologia dell’Università di RomaTre impegnati in uno scavo didattico all’interno del corridoio che un tempo collegava via degli Augustali con le poco distanti Terme del Nuotatore e che ancora prima costituiva il limite più ampio del temenos del santuario, un bambino chiede:
“Maestra, cosa stanno facendo?” e la maestra risponde “Niente. Qui hanno già scavato tutto”.
A quella maestra vorrei dire un sacco di cose. Potrei cominciare dicendole che invece che sminuire il lavoro di quegli studenti entusiasti avrebbe potuto cogliere la fantastica occasione di mostrare ai suoi alunni gli archeologi all’opera in un sito così grande; avrebbe potuto farli riflettere sul fatto che se Ostia Antica oggi appare così è perché fior di archeologi vi hanno lavorato per far tornare la città romana all’antico splendore; avrebbe potuto dir loro che tutto ciò che sappiamo su Ostia Antica lo sappiamo perché gli archeologi che l’hanno fatta riemergere da secoli di oblio ci hanno raccontato cosa era ogni singolo edificio, come era strutturata la città, chi ci viveva e come ci abitava, chi ci lavorava e come pregava, ecc. E avrebbe potuto dire, cara maestra, ma non l’ha fatto, perché evidentemente non lo sa, o non le interessa, che più passa il tempo e meglio e più approfonditamente possiamo conoscere la città, perché gli archeologi non si limitano a fare buchi per terra e a portare alla luce muri e mosaici, ma li studiano, cercano di spiegarli, approfondiscono le conoscenze che già si hanno con l’apporto di nuove metodologie, di nuove tecniche, ma soprattutto hanno nuove domande, cui vogliono trovare risposte.
Quindi, cara la mia maestra, non è vero che i futuri archeologi dei quali ha sminuito la fatica e il lavoro non fanno niente: piuttosto cercano nuove risposte. La sua risposta al suo alunno invece è tanto più grave in quanto, oltre a distruggere sul nascere una curiosità, che nei bambini è la cosa più preziosa, si è abbassata al livello di una chiacchiera da Bar Sport.
La maestra di Ostia non è senz’altro l’unica a pensare che sia inutile scavare perché tanto “hanno già scoperto tutto”. Proprio per questo voglio spendere due parole per dire a cosa serve scavare ancora, e ugualmente a cosa serve fare ancora ricerca.
Accennavo più sopra alle domande. Quando Ostia fu scavata, in epoca fascista, importava principalmente portare in luce i monumenti e gli edifici per mostrare lo splendore dell’antica Roma al Führer in visita in Italia. La prima operazione fu dunque lo scavo, all’epoca anzi lo sterro, visto che ancora il concetto di stratigrafia archeologica era molto debole, per non dire nullo, cui seguì una prima interpretazione degli spazi e degli edifici. Si distinsero i quartieri abitativi, i santuari, gli edifici pubblici, le terme e le aree sepolcrali. Si riuscì in questo modo a far parlare quei muri in laterizi che testimoniano oggi la vitalità della città romana. Dal Dopoguerra in avanti è stato un crescendo di studi: innanzitutto la pietra miliare costituita dalla pubblicazione dei vari volumi degli “Scavi di Ostia”, quindi nuove campagne di scavo che nel frattempo cominciavano ad accogliere il metodo stratigrafico, il quale comportava un nuovo modo non solo di scavare, ma anche di interrogare il dato archeologico: se in età fascista si datavano gli edifici sulla base della tecnica muraria, secondo quanto studiato da Giuseppe Lugli, dopo si cominciò ad utilizzare la ceramica che l’archeologo Nino Lamboglia aveva verificato essere più efficace e veritiera nel fornire dati cronologici.
In un secolo di scavi Ostia ha visto il susseguirsi di più generazioni di archeologi, ciascuna portatrice di un suo metodo di lavoro, di un suo modo di studiare i dati, di nuove domande. E se ai primi archeologi che scavarono Ostia premeva innanzitutto capire che cos’erano quegli edifici che apparivano per la prima volta davanti ai loro occhi, la generazione successiva era più attenta a capire la storia della città, risalendo indietro fino al IV secolo a.C., quando non era che un villaggio lungo la riva del Tevere, e la generazione successiva, che poi è quella attuale, vuole capire la microstoria dei singoli edifici, il rapporto degli uni con gli altri, il processo di vita di ciascuno di essi, litigando con la carenza di dati, ormai persi per sempre, che le generazioni di archeologi precedenti scavarono via senza remore.
Perché si continua a scavare? Perché si continua a fare ricerca? A cosa serve la ricerca? Perché non possiamo farne a meno? Il lavoro dell’archeologo è fatto di domande, domande che vogliono risposte. Non ci accontentiamo della prima risposta, ma come i bambini di tre anni continuiamo a chiedere “Perché? Perché? Perché?”. Ogni archeologo, per le sue particolari inclinazioni, la sua specializzazione e i suoi interessi, va a notare dettagli che un altro non nota, li studia, li confronta, li pubblica: contribuisce ad accrescere la nostra conoscenza su quel dato edificio, o anche solo oggetto. Le domande che gli archeologi si pongono oggi sono ben diverse da quelle che si ponevano le generazioni precedenti. Le risposte ottenute dalle generazioni precedenti sono la base di partenza per le domande di oggi. L’utilizzo di nuove tecnologie, sempre più sofisticate, aiuta a porsi nuove domande, a trovare le risposte e anche a ritrasmetterle, a comunicarle al pubblico.
La curiosità muove chi fa ricerca in tutti i campi del sapere, archeologia compresa. La stessa curiosità che aveva quel bambino mentre guardava gli archeologi al lavoro. Ma lei, signora maestra, gliel’ha tarpata con una leggerezza che francamente mi dispiace parecchio.