Mancano pochissimi giorni alla chiusura della mostra “Tota Italia” alle Scuderie del Quirinale.
Un peccato, secondo me, che sia durata così poco: inaugurata il 12 maggio, chiuderà i battenti già il 25 luglio: poco più di due mesi, a fronte di altre mostre, come ad esempio “I Marmi Torlonia” che, inaugurata a ottobre 2020, è stata ulteriormente prorogata fino a fine 2021.
Così cerco di convincere i ritardatari a correre a Roma: non tanto per la mostra in sé (il concept della mostra, che vedremo tra poco, poteva essere sviluppato molto di più) quanto per alcuni straordinari oggetti che provengono da musei anche meno noti d’Italia: mi riferisco al Museo Nazionale Atestino, o al Museo archeologico Nazionale di Melfi o ancora al Museo archeologico Nazionale La Civitella di Chieti.
Quello che è importante sapere fin da subito è che sono in mostra solo ed esclusivamente reperti e opere provenienti dai Musei Italiani, ovvero da musei e parchi archeologici che fanno parte del Sistema Museale Nazionale e in particolare afferiscono al MiC – Ministero della Cultura e alla Direzione Generale Musei.
Una sorta di chiamata alle armi: perché il curatore della mostra è infatti Massimo Osanna, Direttore Generale Musei già Direttore del Parco archeologico di Pompei, insieme a Stephane Verger, Direttore di Museo Nazionale Romano.
Ai musei coinvolti è stato chiesto di prestare alcune opere particolarmente rappresentative delle proprie collezioni per costruire una narrazione corale di come da “diversis gentibus una” si è arrivati a “Tota Italia“.
Tota Italia: il concept della mostra
“Tota Italia” racconta l’Italia agli inizi e durante il processo di romanizzazione che dal IV secolo a.C. in avanti si concluderà definitivamente sotto Augusto nel I secolo d.C. Proprio Augusto scrive nelle sue Res Gestae l’espressione “Tota Italia”, volendosi riferire al fatto che durante la guerra civile contro Marco Antonio l’intera penisola si schierò dalla parte di Ottaviano. Di fatto, queste due semplici parole riassumono davvero 4 secoli di storia della penisola, di lento procedere, qualche volta anche aiutato da azioni violente, verso la completa romanizzazione.
La mostra, attraverso il concept archeologico, si fa veicolo di un messaggio sociale e (direi pure) politico: Tota Italia inaugura all’indomani dalla fine dell’ennesimo lockdown, in un momento in cui più che mai all’Italia è stato chiesto uno sforzo notevole: quindi ripartiamo dalle basi, e le basi non possono che essere la nostra storia: tornare a capire come e quando abbiamo cominciato a sentir parlare di Italia.
Inizialmente infatti il termine Italia designava la sola Calabria. Poi col tempo si estese a rappresentare geograficamente l’intera penisola. La cosa che emerge – e su questo giova leggere il saggio introduttivo di Massimo Osanna nel catalogo della mostra – è che soprattutto nelle prime fasi della romanizzazione furono le stesse città a chiedere l’aiuto di Roma, come Capua nel 343 a.C. che per non cadere in mano sannita si consegna spontaneamente a Roma; la fondazione di colonie latine come Luceria nel 314 a.C. in territori non urbanizzati necessariamente comporta nuovi equilibri (o squilibri) sociali e territoriali. Così nel 285 a.C. Thurii, in Calabria, chiede l’intervento romano contro i Lucani, mentre al contrario Taranto, per evitare la forte ingerenza romana nel Sud Italia chiede l’aiuto di Pirro, con le conseguenze che noi tutti sappiamo.

Nel frattempo, nell’Italia Centrale, la Terza Guerra Sannitica si concludeva con la Battaglia di Sentinum, o Battaglia delle Nazioni: nel 295 a.C. una coalizione di Etruschi, Umbri, Sanniti e Piceni veniva sbaragliata dall’esercito romano. Questo evento bellico segna l’avvio della romanizzazione nell’Italia Centrale in direzione dell’Adriatico. A distanza di pochi decenni una via consolare, la via Flaminia, attraverserà Umbria e Marche in direzione di Rimini.

La romanizzazione è un processo lungo e complesso, che non si è concluso nel giro di vent’anni, ma di secoli. La romanizzazione va di pari passo col concetto di Italia in senso etnico-culturale che proprio Roma diffonde, non per annullare le differenti culture, ma per aggiungervi una veste identitaria.
Ma la prima volta che gli Italici si sentono effettivamente uniti è – guarda un po’ – proprio contro Roma! Nel 90 a.C. la Guerra Sociale non è altro che l’alleanza dei Socii Italici contro Roma per veder riconosciuti i propri diritti di socii – alleati dunque, e non sottomessi – a Roma. La guerra in effetti avrà come conseguenza la concessione della cittadinanza romana a tutti i popoli italici. Infine, è Augusto che divide l’Italia in regiones. Regiones che in parte combaciano con le regioni italiane attuali, e in qualche caso ancora ne portano il nome.
Tota Italia: le opere in mostra da non perdere (e che raccontano effettivamente la romanizzazione)
Come dicevo in apertura, il tema della romanizzazione poteva essere sviluppato diversamente e meglio. Come spesso avviene nelle mostre delle Scuderie del Quirinale, più che a un discorso organico si assiste ad una giustapposizione di pezzi magnifici (l’esempio più eloquente è stato la mostra Pompei e Santorini, eccezionale per le opere esposte, molto deludente quanto a base scientifica). Pezzi che questa volta, però, un senso ce l’hanno.
Anzi, spiace constatare che se lo spirito della mostra è quello di raccontare la romanizzazione in varie sue sfaccettature, manca un’opera che secondo me è assolutamente significativa di quel frangente culturale: la statua in bronzo dell’Arringatore (Museo Archeologico Nazionale di Firenze): la statua, rinvenuta forse sul Lago Trasimeno, raffigura un magistrato cittadino vestito di toga che alza il braccio nel gesto dell’Ad Locutio: perfettamente romano, se non fosse che sulla bordatura della toga sta un’iscrizione in lingua etrusca: il nostro Avile Meteli (così si chiama) amministra secondo impostazioni civiche ormai romane una cittadina che è ancora etrusca se non nell’organizzazione sociale, almeno nella lingua. Ecco, secondo me l’Arringatore è il grande assente di questa mostra.
Tuttavia ci sono ben altre opere che, oltre ad essere eccezionali, raccontano il processo di romanizzazione.
Il fregio di Civitalba (Museo Archeologico Nazionale di Ancona)
Civitalba è una località delle Marche interne, nel territorio di Arcevia (AN), ma a pochi km da Sassoferrato, alle cui pendici sorge la romana Sentinum. A Civitalba, scavi di fine Ottocento portarono in luce le terrecotte architettoniche di un tempio datato all’inizio del II secolo a.C. Le terrecotte architettoniche del fregio del tempio in particolare raccontano una battaglia tra galati e greci: cosa che è stata subito interpretata come una trasposizione della Battaglia delle Nazioni all’interno della III Guerra Sannitica che un secolo prima (295 a.C.) si era combattuta proprio da queste parti tra Romani e una coalizione di popoli centroitalici. Così i greci in terracotta rappresenterebbero l’esercito romano, mentre i galati, con i loro baffoni e gli occhi spalancati sarebbero i popoli del centro Italia finalmente sconfitti.

Un intento politico e propagandistico eccezionale sottende a questo fregio, un monito perenne nella terra ormai romanizzata da parte del Romano vincitore.
Il corredo della Tomba dei Due Guerrieri da Lavello (Melfi, Museo Archeologico Nazionale del Melfese)
Un corredo straordinario, quello della Tomba dei Due Guerrieri. Gli amanti della ceramica “barocca” di produzione canosina resteranno assolutamente appagati: tre vasi plastici, animati da statuette fittili e da ulteriori appliques in terracotta sono la prima cosa che si nota (o, almeno, che io noto): nell’askos, tre figure femminili, una delle quali, centrale, è dotata di ali, sovrastano la spalla del vaso, dal quale sbucano letteralmente due protomi equine comprensive di testa e di zampe anteriori già lanciate al galoppo. Sul collo del vaso una piccola testina dipinta, mentre una testa più grande si trova sulla pancia del vaso.

Le due brocche non sono da meno: una statuetta fittile femminile centrale, mentre sui lati, sopra la spalla del vaso, si trovano due fiori dai quali spuntano altrettante teste. Sulla pancia, anche qui si trovano due volti a rilievo. Anche le brocche recano tracce di dipintura, il che non fa che rendere ancora più barocchi questi oggetti.
Ma ciò che rende importante questo corredo – e che lo rende funzionale alla narrazione della mostra – è la presenza di un elmo, del tipo “di Montefortino”. Ma Montefortino di Arcevia si trova ben più a nord, nelle Marche interne. Dalla necropoli celtica (Galli Senoni) di Montefortino proviene un cospicuo quantitativo di elmi in bronzo di produzione celtica ma di modello etrusco che ebbe larga fortuna perché fu adottato dall’esercito romano. Ecco che allora scopriamo che il nostro guerriero apulo, possessore di quell’elmo, faceva evidentemente parte di una società già in piena romanizzazione, nella quale le aristocrazie locali già dimostravano i propri contatti e ibridazioni con Roma, spia dell’espansione politica di quest’ultima.

Il rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco e un persiano (MArTa Taranto)
Questa metopa faceva parte di un monumento funerario a naiskos (edicola funeraria) rinvenuta a Taranto, che non doveva essere molto diversa dalle edicole funerarie raffigurate sui grandi vasi apuli funerari. La metopa risponde ad un’iconografia che si diffonde a partire dall’originale scultura di Lisippo che ritraeva Alessandro Magno a cavallo mentre si accaniva su un nemico sconfitto. L’iconografia ebbe larghissima diffusione: nel cimitero del Ceramico di Atene il monumento funerario di Dexileos è un confronto molto stringente, anche se con molte differenze. che si può fare con la nostra metopa. Le dimensioni, certo, differiscono: il monumento di Dexileos, che pure era a rilievo, è decisamente più grande della piccola metopa tarantina. Ma questa non si fa mancare un grandissimo pathos, forse più del rilievo di Dexileos di Atene.

Taranto, nell’economia della mostra, riveste un peso non indifferente: proprio perché fu la città che piuttosto che rischiare l’ingerenza romana preferì chiamare un esercito straniero, quello di Pirro. Lo scontro con Pirro da parte romana fu vissuta con grande apprensione, e certo i famosi elefanti di Pirro – di cui conosciamo l’esistenza fin dalle scuole elementari – giocarono un ruolo di primo piano nel creare il mito/terrore del re dell’Epiro. Ma poi, come sappiamo, il pragmatismo romano prese il sopravvento e gli elefanti finirono raffigurati sui piatti, come quello dalla necropoli di Capena, oggi al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (v. foto sopra).
La pesca miracolosa della statua di Ercole (Parco archeologico di Ostia antica, Museo Ostiense)
Questo rilievo esce un po’ dal solco della romanizzazione: ci troviamo infatti a Ostia, la prima colonia romana in assoluto. Eppure, porto sul mare, alla foce del Tevere, è stato senz’altro il primo approdo cui giungevano genti straniere dirette a Roma.
Il rilievo è interessante perché vi è raffigurata la miracolosa pesca di una statua di Ercole: pescatori usciti a pescare imbrigliano nella rete una statua del dio insieme ai pesci e alla cassetta delle sortes. Il rilievo, che è un meraviglioso esempio di arte plebea, mostra poi altre scene: il dio Ercole in persona che trae le sortes dalla cassetta e le porge a un camillus, cioè un ragazzetto addetto al culto del dio. Le sortes non sono altro che vaticini e questo fa del culto di Ercole a Ostia un culto eccezionale: perché a Ostia il culto di Ercole ha valenze divinatorie, il che è piuttosto inconsueto. Il rilievo si conclude con l’aruspice che ha commissionato e che firma il rilievo, Fulvius Salvis, il quale si rivolge a un personaggio ahimè non conservato che sta per essere incoronato da una vittoria alata: come a suggerire che le sortes di Ercole non hanno mentito e il personaggio è effettivamente tornato vincitore, come era stato vaticinato.

Questo rilievo era stato dedicato nel tempio di Ercole di Ostia antica, tempio localizzato nell’area sacra repubblicana di Ostia lungo via della Foce, in diretto collegamento col mare. A Ostia il culto di Ercole è legato al tema della navigazione per mare e al successo dei viaggi per mare e dei commerci via mare.
Tota Italia: come la mostra è stata raccontata dai media
L’inaugurazione di Tota Italia è stata accompagnata da un battage pubblicitario e promozionale notevole che sicuramente ha contribuito a creare aspettativa almeno a chi è introdotto nell’ambiente museal/statale italiano.
Trovo sempre interessante come viene promossa una mostra come questa sui media. E spiace constatare che nonostante molti giornalisti siano stati invitati all’inaugurazione per la stampa, nessuno – o pochi – abbiano prodotto contenuti diversi, più approfonditi rispetto al Comunicato Stampa divulgato per raccontare la mostra. Anche i post sui social – realizzati da testate e da blogger – non si sono sganciati dal primo impatto del “bello! Finalmente!”. Ma del resto si sa: i social, luoghi della produzione di contenuti in tempo reale, sono i luoghi dell’hic et nunc, delle sensazioni, non delle riflessioni e spiegazioni a freddo (naturalmente non per tutti è così, anzi).
Sono anni che sostengo che riportare i meri comunicati stampa sul web non sia efficace: sia perché si duplicano e si replicano contenuti sempre uguali che non fanno bene a nessuno (né all’indicizzazione su Google, né alla reputation del sito web/blog che fa copiaincolla), sia perché non si aggiunge niente di nuovo al dibattito.
In tutto questo panorama, oltre alle recensioni ricevute a voce – che non contano – mi piace segnalare la recensione pubblicata pochi giorni fa da Finestre sull’arte. Anche se non sono d’accordo su tutto ciò che è contenuto nell’articolo, apprezzo però il tono critico (che non è polemico, non sempre quanto meno). Non credo, a differenza di Finestre sull’arte, che qui si voglia ricalcare certa propaganda. Sono d’accordo che si è scelta una narrazione semplicistica rispetto alla complessità del tema. Ma d’altronde è il luogo (e il brand) che lo impone: le Scuderie del Quirinale vogliono e richiamano grandi numeri. E grandi numeri vuol dire pubblico generalista. Anzi, Tota Italia, tolto il Pugile in riposo e poco altro, non ammicca molto all’effetto “wow” con cui in genere si pensa di conquistare il pubblico generalista. Una mostra per le Scuderie del Quirinale non può essere complicata, né complessa. Si sceglie una linea narrativa che certo non esaurisce la complessità del problema, ma nemmeno stravolge la realtà storica dei fatti. Quanto alla chiave della propaganda augustea… beh, Augusto is the new Napoleone: personaggio noto e conosciuto, almeno di nome. Quindi non mi stona che sia il protagonista e il punto di arrivo del percorso espositivo. Giusto? Sbagliato? Non sta a me dirlo.
Sarà interessante, piuttosto, sapere se in termini di pubblico Tota Italia ha funzionato. Anche se siamo ancora in epoca Covid, vale secondo me la pena valutare l’interesse delle persone nei confronti di questa mostra. E con persone intendo, ancora una volta, pubblico generalista, non addetti ai lavori.
Un pensiero su “Tota Italia: perché ho visitato la mostra alle Scuderie del Quirinale”