Un libro per riflettere
Una domanda ci si dovrebbe porre, a proposito dei beni culturali, soprattutto archeologici, distribuiti sul territorio: quale significato rivestono, oggi, nell’immaginario dei cittadini e delle loro comunità? Tenere in considerazione questo problema o, al contrario, non porselo può influenzare politiche di tutela ben differenti se non addirittura opposte.
Andreina Ricci, docente di Metodologia della Ricerca Archeologica e Archeologia Classica all’Università di Roma Tor Vergata, partendo da questo tema riflette “sul se e sul come i risultati della ricerca archeologica possano contribuire a migliorare il rapporto tra cittadini e i resti del passato” e si prefigge come obiettivo quello di “proporre qualche spunto volto a segnalare la possibilità che tra custodi del patrimonio e cittadini, tra resti del passato e città del presente, arrivi a stabilirsi un rapporto fondato su un nuovo piano di reciprocità”(p.12).

Dall’uso pubblico della storia all’anonimato delle rovine recintate
L’autrice analizza il caso di Roma, considerata sia nel centro storico che nella campagna romana, ripercorrendo la storia della valorizzazione dei suoi monumenti nel ‘900. Del centro storico in particolare si sofferma ad osservare il ruolo che esso ha avuto dacché Roma è stata fatta capitale d’Italia, e in particolare in epoca fascista, in cui si assiste ad una manipolazione pedagogica della storia, ad un uso pubblico della storia volto ad esaltare Mussolini come erede di Augusto, il primo imperatore, e di Costantino, l’imperatore cristiano. Così i resti archeologici del centro di Roma, i Fori, il Colosseo, l’arco di Costantino, divennero simboli e luoghi sacri.

Per dare più importanza e visibilità ai monumenti antichi della Capitale vennero demolite tutte quelle strutture che ne disturbavano la visuale, perché si producesse una “concentrazione di significato” in cui il monumento antico/simbolo fosse percepibile da quanti più cittadini possibili. Venne dunque fatto un “uso pubblico della storia” volto ad identificare la grande Roma capitale dell’Impero con la Roma contemporanea e la sistemazione degli edifici divenne funzionale ad una “religione della politica”. Di queste demolizioni si è parlato ancora recentemente nella mostra “I fori dopo i Fori” ai Mercati di Traiano, con l’esposizione delle foto relative alla demolizione del Quartiere Alessandrino.
Nel dopoguerra, al contrario, per reazione, fu bandito qualsiasi uso dei monumenti a fini politico-demagogici. In più si sviluppò la città fuori delle mura, nella campagna romana, dove emersero resti antichi di ville extraurbane e fattorie, e dove i resti archeologici vennero recintati.
Questa mentalità dal dopoguerra è arrivata fino ai nostri giorni. Siamo qui davanti, dice la Ricci, ad un nuovo tipo di isolamento: non più isolamento come enfatizzazione, ma isolamento come anonimato; come reazione all’uso pubblico della storia messo in scena dal regime fascista, l’archeologia, infatti, viene lasciata in mano agli archeologi, comunque agli specialisti, con la conseguenza che si viene a creare una separazione netta tra questi e i comuni cittadini.
E il valore storico dei resti, che dovrebbe essere il fondamento di ogni politica di tutela, “sfugge completamente allo sguardo di un non specialista e in questo senso l’assenza di qualsiasi strumento di comunicazione, anche del più elementare pannello esplicativo o di una semplice didascalia, non può essere considerata casuale… recinti e perimetrazioni… rappresentano degli steccati, materiali o immateriali, nei confronti di qualsiasi cedimento ‘comunicativo’, considerato di per sé scorretto” (p.81), ancora nel timore di un uso pubblico della storia in senso didattico-pedagogico.
Questo ha portato però alla comparsa sul territorio di resti indecifrabili, che al giorno d’oggi emergono in tutta Italia. Se per i monumenti si può parlare infatti di un valore dell’antico che tutti i cittadini possono cogliere, per molte rovine spesso questo valore non è percepito, e i resti archeologici non sono neanche riconosciuti come tali, ma solo come spazi recintati sottratti alla pubblica utilità per motivi sconosciuti o inutili.
Comunicare l’archeologia: una necessità

E’ proprio qui che entra in ballo la necessità del comunicare l’archeologia da parte in primis degli esperti del settore: infatti “per i frammenti poco riconoscibili di cui la città è disseminata, la comunicazione è un dovere di cui soprattutto gli archeologi dovrebbero sentirsi responsabilmente investiti”(p.97), “se quella miriade di resti indecifrabili che sottraiamo alla città riveste ormai solo un valore storico, esso va comunicato e reso percepibile”(p.98 ). L’uso pubblico che si fa oggi della storia, invece, è elitario, caratterizzato dal silenzio o da trattazioni scientifiche riservate solo ed esclusivamente agli specialisti; “l’uso pubblico della storia oggi praticato, sottrae qualcosa ai cittadini senza restituire loro nulla in cambio”(p.99).
L’autrice, giunta a questo punto, auspica che si crei invece un rapporto, ormai reciso da troppo tempo, tra archeologia e gente comune, cioè tra archeologi e studiosi da un lato e cittadini, i veri fruitori dei beni archeologici, dall’altro. Propone così un progetto archeologico come traduzione e racconto dei resti archeologici del territorio, che nasce dall’esigenza dei cittadini di appropriarsi delle informazioni e di avere strumenti per la comprensione. Così l’interpretazione dei resti in vista dell’attribuzione ad essi del loro giusto valore storico diventa il momento più alto del lavoro dell’archeologo, nonché un obbligo etico-professionale.
Archeologia come traduzione e racconto
L’idea di un progetto archeologico come traduzione delle evidenze archeologiche si presenta come “l’unica possibilità perché ciò che preserviamo possa essere ‘letto’ da tutti”(p.145). La traduzione porta a “progettare trame, sequenze e percorsi volti a spiegare ciò che i resti, presenti nella città contemporanea, permettono di ‘illustrare’”(p.147). Nasce in questo modo il progetto archeologico come racconto, un racconto che parli del singolo resto archeologico, e che lo colleghi anche e soprattutto al territorio nel quale sorge, perché sia ricontestualizzato, restituito al contesto d’origine. In questo modo la popolazione si riappropria di un bene, il bene culturale, che le appartiene, in quanto è anch’essa parte del territorio in cui il bene è sorto, e convive con esso.
Faccio notare che Andreina Ricci scrive di archeologia come racconto già nel 2006, quando ancora l’idea dello storytelling in archeologia ancora era ben lontana dal nascere.
Pur se la Ricci basa le sue riflessioni su Roma, caso emblematico per la storia che ha avuto, e per l’uso che è stato fatto dei suoi monumenti nel corso del secolo appena concluso, il suo discorso si applica senz’altro a tutto il territorio italiano, disseminato di siti archeologici spesso ignoti a chi vi abita vicino, comunque inaccessibili e incomprensibili a tutti.
La comunicazione archeologica dovrebbe essere il punto d’arrivo, e anzi il fine ultimo della ricerca. Come dice l’autrice stessa, gli oggetti del passato devono parlare, devono comunicare il loro significato e la loro storia a chi li vede, perché possano acquistare un senso; altrimenti essi sono e rimarranno sempre semplicemente nude pietre.
2 pensieri su “Andreina Ricci, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, Roma 2006”