Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo

Questo piccolo e prezioso libro in realtà non rientrerebbe in una biblioteca di archeologia. Marc Augé è un antropologo della contemporaneità, lui studia l’uomo e i luoghi che esso frequenta, non parla del nostro passato. O forse sì?

In Rovine e Macerie, Augé affronta le rovine sotto vari punti di vista. E inizia prendendo spunto da un’illustre citazione: Sigmund Freud il quale, giunto per la prima volta ad Atene, sull’Acropoli pensa “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?”: da qui parte una riflessione sul senso del tempo davanti alle rovine di un’antica civiltà, meglio, di un sito archeologico (ne conosciamo bene degli esempi, vista l’abbondanza in Italia), un tempo che indica semplicemente il passato, ma che non riesce a raffigurare il succedersi storico. Ciò è ben evidente in una città come Roma, ad esempio nei Fori Imperiali: i resti monumentali appartengono al passato di epoca romana della città, ma non sono stati tutti costruiti nello stesso momento, né erano utilizzati tutti contemporaneamente; in sostanza il paesaggio archeologico attuale non corrisponde a nessun momento preciso della storia antica di questa parte della città, ma è la somma delle diverse fasi storiche, architettoniche, monumentali che si sono succedute. Da qui anche la difficoltà, per un visitatore in un’area archeologica, di capire a fondo ciò che sta vedendo.

Augé passa poi a fare un discorso sul paesaggio – non esiste paesaggio senza sguardo (p. 37) – in cui contempla un paesaggio costituito da rovine integrate nella natura: l’esempio cui ricorre è la città maya di Tikal in Guatemala (ma lo stesso ritorna anche per Angkor, in Birmania), vista all’alba, quando ancora non è stata invasa dai turisti. Di nuovo fa una riflessione sul tempo che le rovine ci suggeriscono (del resto, è questo il tema del libro): “Ci accade di contemplare dei paesaggi e di ricavarne una sensazione di felicità tanto vaga quanto intensa; più quei paesaggi sono “naturali”(meno essi devono all’intervento umano), più la coscienza che noi ne abbiamo è quella di una permanenza, di una lunghissima durata che ci fa misurare per contrasto il carattere effimero dei destini individuali” (p. 37). E ancora, parla di indeterminatezza temporale, per definire la sensazione che si prova davanti a rovine di architetture complesse, che solo una guida o una spiegazione efficace può chiarire.

L’antropologo della contemporaneità, anzi della surmodernità, non può non affrontare anche qui un tema a lui caro, quello dei non-luoghi: “gli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati sono nonluoghi, nella misura in cui la loro principale vocazione non è territoriale, non mira a creare identità singole, rapporti simbolici e patrimoni comuni, ma tende piuttosto facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie” (p. 87). E qui mi viene in mente un discorso che faceva tempo fa il Prof. Daniele Manacorda dalle pagine di Archeo sul rischio che le tante piccole aree archeologiche che ogni tanto si aprono nelle città italiane, prive di qualsiasi attrattiva e spiegazione per chi le vede, abbandonate a se stesse tra erba incolta e cartacce abbandonate, possano diventare dei non-luoghi per chi le vede ma non le capisce, aree prive di identità, identiche a tante altre, estranee agli abitanti di quell’area.

A chiudere le riflessioni di Marc Augé, tre capitali europee, Roma, Berlino e Parigi, e tre problematiche differenti: a Roma il tema/problema dell’archeologia urbana che genera paesaggi di rovine e deve porsi il problema di volta in volta se far diventare una nuova scoperta parte di quel paesaggio, o se piuttosto essa deve essere coperta per favorire lo sviluppo della città attuale; città che ha vissuto più di ogni altra il fenomeno dell’uso pubblico della storia in età fascista, epoca cui risalgono i grandi scavi e lavori che hanno portato alla formazione di Via dei Fori Imperiali. A Berlino, dopo la caduta del muro, la città è al tempo stesso un laboratorio e un museo (p. 107): da una parte c’è Postdamerplatz, alla cui realizzazione in forme avveniristiche hanno contribuito i maggiori architetti contemporanei, dall’altra c’è un percorso che attraversa la città per andare a ricercare i frammenti ancora in piedi del Muro. La città rivela la sua incompiutezza, palpabile nei cantieri ancora aperti e leggibile nella storia del XX secolo. Parigi invece è il percorso dell’Autore attraverso il quartiere della sua infanzia, per scoprire che la città giorno dopo giorno sta cambiando, in una costante distruzione/ricostruzione in forme nuove, ma prive di personalità e di identità, di edifici e talvolta quartieri, cosicché ci si pone il problema della città storica: la città storica di domani sarà la stessa che si intende oggi? E l’autenticità di alcuni quartieri non viene forse enfatizzata in favore del turismo di massa, facendo di fatto perdere l’identità originaria? Sono problemi che ci si pone, oggi, nella società delle immagini in cui chi viaggia, di fatto va a vedere con i propri occhi immagini che già conosce.

Altre parole si potrebbero ancora dire sul senso del tempo legato all’archeologia, per esempio dal punto di vista dell’archeologo: le rovine non sono altro che la punta di iceberg di ciò che ci viene restituito del passato. I nostri sforzi di archeologi di tentare di comprendere le dinamiche di vita delle società del passato non sono che vani tentativi di fronte alla complessità di infinite situazioni che potevano sussistere. Come si fa da poche pietre sconnesse che identificano un crollo in una fase tardoantica di una città romana a capire come essa effettivamente andò in rovina? Perché lì e non altrove? Perché in quel momento e non in un altro? E qual è esattamente il momento? Cosa e perché ha provocato l’abbandono di una città che fino ad un secolo prima era fiorente? Ma era davvero un secolo? Può un semplice frammento di ceramica raccontarmi i commerci, la vitalità economica e sociale di una città romana? E può l’assenza di quel frammento raccontarmi di quando e come quella vitalità è scomparsa? Ma è stato un processo rapido o un lento declino? E in questo modo l’archeologo si pone dinanzi al senso del tempo, cercando di districarsi e di districarlo, di dipanarne la matassa. Sostanzialmente, di capirci qualcosa.

Un pensiero su “Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo

  1. Molto bello, quel libro, l’ho letto anch’io!! Sempre in tema, se non l’hai mai letto, ti consiglio anche “Attorno alla nuda pietra” di A.Ricci, Donzelli 2006. Affronta lo stesso tema, ma con un taglio più specifico sulle rovine archeologiche, sull’isolamento artificioso dei “monumenti” e sulla loro trasformazione (anche qui si parla diffusamente di Roma, ovvio!), in definitiva, in “miti” che perdono quasi corporeità e consistenza, distorcendo la percezione del visitatore attuale (un esempio tipico: il mito dei templi greci “candenti” inventato dal Neoclassicismo!!! I templi erano dei bon-bon coloratissimi, altrochè!!!)

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