“Arte liberata” in mostra alle Scuderie del Quirinale

Recentemente il Ministero della cultura ha posto molta attenzione sul tema dell’arte rubata, ovvero sul tema delle opere d’arte, o reperti archeologici, sottratte dalla loro collocazione/contesto originario per andare ad arricchire qualche singolo collezionista o qualche prestigioso museo straniero. L’attenzione mediatica su questo tema negli ultimi mesi – prima ancora dell’insediarsi del nuovo governo, ma sostenuto ugualmente dal governo Meloni nella persona del ministro Sangiuliano – è stata particolarmente accesa: l’esposizione del gruppo scultoreo di Orfeo e le Sirene presso il Museo dell’Arte Salvata allestito nella Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano a Roma è stato il punto più alto di una narrazione serpeggiante tra gli addetti ai lavori lungo gli ultimi anni, e finalmente esplosa in un momento storico in cui, tra l’altro, si parla di “decolonisation” e si aprono spiragli per la Grecia per vedere restituiti, finalmente, i Marmi del Partenone dopo l’illustre precedente del Museo Salinas di Palermo.

Il gruppo scultoreo di Orfeo e le Sirene esposto fino a poco tempo fa al Muse dell’Arte Salvata – Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano

L’Italia non ha equivalenti ai Marmi del Partenone. E non mi riferisco a importanza o pregio dei materiali/reperti/monumenti, quanto piuttosto alla storia della depredazione. Piuttosto nel corso del Novecento, dalla II Guerra Mondiale in avanti, è stata capillarmente depredata di parte del proprio patrimonio culturale. Spesso si è trattato di patrimonio sommerso, ovvero ignoto – perché mai rinvenuto prima, o mai inventariato – allo Stato; ma altrettanto spesso si è trattato di furti su commissione, ai danni di opere custodite ad esempio all’interno delle numerosissime chiese che giacciono semiabbandonate nel nostro territorio: motivo per cui Tomaso Montanari ha scritto l’agile librino “Chiese chiuse“. L’assunto è che le chiese chiuse, quindi non controllate e abbandonate, sono preda dei trafficanti d’arte che sanno benissimo dove possono agire indisturbati, a detrimento del nostro Patrimonio.

Nel corso degli anni sono stati spesi fiumi di inchiostro sul tema dell’arte rubata: primo tra tutti Fabio Isman, con la pubblicazione delle indagini che portarono, tra gli altri, alla restituzione del Cratere di Euphronios all’Italia; passando per “Storia senza voce” di Tsao Cevoli, fondatore dell’Osservatorio Internazionale Archeomafie. Inoltre il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale si è fatto sempre più forte, diventando modello anche per gli stati esteri, fino all’istituzione, ormai diversi anni fa, dei Caschi Blu della Cultura. Un vanto di cui andar fieri, ma che, senza l’opportuna comunicazione verso l’esterno, rimane fine a se stesso. Perché qualcuno potrebbe obiettare: “Perché si spendono soldi pubblici per recuperare due croste e quattro cocci? I nostri musei sono già strapieni!” Ed ecco che nel corso degli ultimi anni, grazie alla collaborazione dei musei, delle testate giornalistiche, delle tv, dell’editoria e da ultimo dei podcast, l’azione del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale ha avuto una sempre maggiore rilevanza e il suo lavoro è stato unanimemente accettato e riconosciuto come importante.

Ma non è questo il tema della mostra. Anche se qui viene a concludere. Il tema della mostra “Arte Liberata” però apre e chiude un cerchio. Un cerchio che inizia col depauperamento, le depredazioni e soprattutto le azioni poste in essere perché ciò non avvenisse, durante la II Guerra Mondiale. L’inizio, se vogliamo definirlo così, del mercato clandestino delle opere d’arte (clandestino perché, fortunatamente la legge 1089 del 1939 regolava i beni culturali dello Stato, senza definirli tali: tale norma sarà recepita dal Testo Unico dei Beni Culturali del 1999 e definitivamente abrogata, perché recepita e migliorata, dal Dl. gls. 42/2004) ma al contempo lo scenario sul quale si mossero figure importanti di difensori del nostro Patrimonio, pronti contro tutto e contro tutti a difendere fino all’ultima cassa di opere. Questo è il tema della mostra.

Luca Signorelli, Crocefissione di Cristo con Santa Maria Maddalena, Uffizi, e una fotografia storica che ritrae l’opera al momento del suo trasporto in uno dei rifugi individuati da Giovanni Poggi nel territorio toscano.

“Arte Liberata”: la mostra alle Scuderie del Quirinale

Tutto ebbe inizio da quella visita di Hitler a Firenze, agli Uffizi, nel 1938. Accanto a un Mussolini alquanto annoiato e completamente disinteressato da quanto aveva intorno (atteggiamento assolutamente legittimo, eh), abbiamo invece un Hitler estasiato, che sta già pensando al suo Fuhrer Museum a Litz, sua città natale.

Uno dei filoni dell’ideologia della Germania Nazista, oltre all’antisemitismo spinto all’eccesso (di cui si possono vedere gli esiti attualmente in mostra al Museo della Shoah e di cui ho parlato qui) è l’acquisizione dei capolavori dell’arte mondiale per andare a costituire il più grande museo artistico di sempre. Del Fuhrer Museum esistono bozzetti, progetti, plastici: un complesso immenso che, attraverso i capolavori dell’arte europea, doveva celebrare Hitler.

La mostra si apre in maniera quasi spettacolare, direi, mettendo in dialogo una foto storica, in cui vediamo il Fuhrer con il Discobolo Lancellotti. Proprio il Discobolo è al primo posto nella lista delle opere che Hitler vuole acquisire per il suo museo. E nonostante l’opera abbia la notifica di interesse pubblico, come da l. 1089 del 1939, e nonostante il parere negativo del ministro Bottai, il Discobolo fu venduto per la modica cifra di 5 milioni di lire nel 1938, dopodiché partì per la Glypthotek di Monaco di Baviera.

Il Discobolo Lancellotti, con cui si apre scenograficamente la mostra

Questo è un episodio tra i tanti che si potrebbero raccontare e che fanno da sfondo alla mostra “L’Arte Liberata”. Il fulcro della mostra in realtà è un altro: raccontare, attraverso le esperienze di storici dell’arte, soprintendenti e funzionari di soprintendenza, uomini e donne, come avvenne la messa in sicurezza del patrimonio museale e monumentale italiano durante la Guerra.

La mostra fa un’operazione molto importante: presenta innanzitutto il quadro storico e soprattutto normativo di riferimento: la promulgazione delle norme in materia di protezione antiaerea fu un atto fondamentale, di grande lungimiranza, nel cui solco si inserirono tutte le azioni di protezione che conosciamo per monumenti e opere d’arte nelle varie città e nei musei d’Italia: come non ricordare la protezione del Cenacolo Vinciano a Milano o del Marco Aurelio a Roma, per citare solo due tra i casi più eclatanti e conclamati. Porre l’attenzione sulle norme di protezione antiaerea significa sottolineare una cosa: l’Italia, ancorché succube del Fuhrer alla vigilia del II Conflitto Mondiale, tuttavia aveva a cuore il proprio patrimonio culturale e identitario e attraverso le misure di protezione antiaerea cercò di dare un segnale. Certo, nelle intenzioni iniziali, bisognava proteggere le opere e i monumenti dal nemico. Quando l’alleato tedesco si trasformò in nemico le cose cambiarono drasticamente.

Si possono distinguere due livelli, in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, di protezione delle opere d’arte (e d’archeologia): un primo livello è quello preventivo della protezione antiaerea: sacchi di sabbia e imbottiture varie sia per nascondere alla vista che per attutire l’eventuale colpo di una deflagrazione; il secondo livello si sviluppa già nel corso delle prime fasi del conflitto, ma assume proporzioni importanti all’indomani dell’8 settembre 1943, quando diventa più che mai importante preservare il patrimonio culturale dal rischio delle depredazioni naziste. Ecco che allora figure come Pasquale Rotondi nelle Marche, Emilio Lavagnino nel Lazio, Noemi Gabrielli a Torino, Fernanda Wittgens a Milano, Rodolfo Pallucchini a Venezia, Palma Bucarelli a Roma e Giovanni Poggi a Firenze, Jole Bovio Marconi, soprintendente archeologa a Palermo, giocano un ruolo fondamentale nell’attuare ogni possibile forma di salvataggio e di nascondimento delle opere per evitare non solo la distruzione, ma il furto.

Statua di Peplophoros e di Ermes in riposo dal Museo Archeologico di Napoli

Si apre poi il capitolo delle restituzioni. Finita la guerra, tra le operazioni dei Monument’s Men (consacrati al cinema da George Clooney e compagni, ma le cui gesta negli USA sono ancora oggi celebrate) e le indagini al limite del lecito del fiorentino Rodolfo Siviero, molte opere sono rientrate in Italia ai legittimi proprietari, pubblici e privati. Di Rodolfo Siviero, considerato lo 007 dell’arte italiana, personaggio ambiguo, prima spia dei fascisti presso i nazisti, poi collaborazionista con i partigiani, è mostrata una fotografia decisamente significativa, storica, che lo ritrae seduto in poltrona al cospetto di una delle opere che ha contribuito a recuperare: la Danae di Tiziano.

La mostra chiude con un passaggio doveroso, su ciò che ancora oggi si fa nella direzione di recuperare le opere d’arte e di archeologia italiane che furono sottratte durante la Guerra. E l’operato dei Carabinieri Nucleo Tutela Patrimonio Culturale viaggia anche in questa direzione: non solo furti contemporanei, quindi, ma anche legittima restituzione di ciò che ci fu ingiustamente sottratto in tempo di guerra.

“Arte Liberata”: cosa mi è piaciuto dell’allestimento

La risposta è: tutto. O meglio, mi sono piaciute alcune scelte allestitive particolarmente significative, mentre su altri aspetti, come ad esempio la spiegazione delle opere, ho trovato particolarmente scarso il contenuto.

Ma partiamo dalle note assolutamente positive. L’allestimento è volutamente spettacolare e coinvolgente. Tale coinvolgimento è dato da due espedienti arredo/narrativi: da una parte abbiamo la riproduzione delle casse di legno e compensato che dovevano custodire le opere nei loro nascondigli. Muovendoci nello spazio queste casse di legno ci invitano ad avvicinarci e a farci chiedere quali opere furono custodite al loro interno e perché proprio loro e non altre: in altre parole, chi stabilisce il vero valore di un’opera d’arte? E, data una collezione museale, con che criterio si stabilisce a quale opera dare precedenza nel caso di un’eventuale messa in sicurezza e nascondimento? Un dilemma, questo, che i vari storici dell’arte, funzionari di soprintendenza e soprintendenti si posero (e si pongono anche oggi, by the way).

Ma l’espediente narrativo più azzeccato in assoluto è dato dalla complementarietà tra le gigantografie di fotografie storiche, che ritraggono le opere al momento del loro nascondimento o del loro ritrovamento, accanto alle opere d’arte in carne e materia, come l’artista le ha fatte. Questo espediente è particolarmente azzeccato, perché fa dialogare l’opera d’arte, di per sé senza tempo nel suo essere “capolavoro” con il fatto storico contingente, che l’ha vista suo malgrado protagonista di un momento storico talmente incerto da non poterne garantire la sopravvivenza in eterno.

La Madonna in treno, opera in terracotta di Andrea Briosco dialoga con la fotografia storica che testimonia il suo ritrovamento ad opera dei soldati americani su un treno in direzione della Germania nel maggio 1945

Un’altra cosa mi è piaciuta dell’allestimento, soprattutto al secondo piano: la scansione per città. Torino, Venezia, Napoli, Palermo, Bologna, Genova, Milano: le principali città italiane hanno avuto i loro funzionari e soprintendenti che si sono sbattuti per salvare il patrimonio culturale a loro in consegna: una missione, la loro, ben superiore al concetto stesso di lavoro. Un concetto questo che va sviluppato anche in chiave contemporanea (nel prossimo post).

Infine, cosa non mi è piaciuto. Ho trovato troppo scarna la descrizione in didascalia delle opere. Opere che, scopro, non sono schedate neanche nel catalogo della mostra. Ora, io mi rendo conto che il tema principale del concept espositivo è un altro, tuttavia a un visitatore medio – tra cui mi inserisco anch’io -poco esperto di arte italiana dall’antichità all’Ottocento, una descrizione un po’ più puntuale di certe opere sarebbe stata gradita.

Con poche eccezioni, poi, l’archeologia, intesa non solo come opere d’arte antica, ma come reperti che erano esposti nei musei e che sicuramente saranno stati in qualche modo protetti (o magari no, e qui si apre allora il discorso su cosa decidere di salvare e cosa no), è molto poco rappresentata. Peccato perché ad esempio è molto interessante l’approfondimento che viene fatto relativamente alle collezioni del Museo Egizio di Torino.

Una fotografia d’epoca documenta i danni dovuti all’abbattersi di uno spezzone incendiario sul Museo Egizio di Torino

Al netto di questo, “Arte Liberata” è una mostra importante, che apre ad una serie di riflessioni e di sguardi sul contemporaneo davvero infinita. Ma di questo parleremo, probabilmente, nel prossimo post.

Dopo la mostra

La mostra “Arte liberata 1937-1947” si è chiusa il 10 aprile 2023. E dopo la mostra cosa resta?

Resta una serie podcast, prodotta da Chora Media che settimana dopo settimana racconta in vari episodi le storie legate ai personaggi già protagonisti del percorso espositivo. La serie podcast si intitola “A fari spenti”, realizzata da Francesco Oggiano, ed è un utile strumento per approfondire le biografie di storici dell’arte, direttrici e direttori di musei che si impegnarono in prima linea e con abnegazione per portare a termine la loro mission(e). Buon ascolto.

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