Mai come negli ultimi mesi la via Appia antica sta brillando sotto i riflettori per via della presentazione della candidatura UNESCO dell’intero suo percorso, da Roma – Porta San Sebastiano, a Brindisi.
Tuttavia, sono anni che il Parco archeologico dell’Appia antica – creato con D.M. n. 44 del 23 gennaio 2016 “Riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ai sensi dell’art. 1, c. 327, della L. 28 dicembre 2015, n. 208” – si impegna, oltre che nella tutela archeologica e soprattutto paesaggistica di un patrimonio tanto fragile quanto importante dal punto di vista storico e archeologico, anche e soprattutto nella sua valorizzazione. Una valorizzazione che passa per un Ufficio Comunicazione che, in perfetta armonia con i funzionari tecnici, riesce, per esempio, a raccontare giorno per giorno una campagna di scavo, facendo letteralmente scuola di quello che potremmo definire un diario di scavo social (anno 2022 con lo scavo del Castrum Caetani, per l’Ufficio Comunicazione Lorenza Campanella, per la direzione scientifica Stefano Roascio: cercate i contenuti su facebook, non resterete delusi). Una valorizzazione che passa per la realizzazione della realtà immersiva per riuscire finalmente a spiegare un monumento altrimenti muto quale rischia di essere il Castrum Caetani (direzione scientifica Stefano Roascio). Una valorizzazione che, infine, passa per la realizzazione di una mostra, la prima interamente archeologica da che il Parco è stato istituito: Patrimonium Appiae, allestita presso l’Antiquarium di Santa Maria Nova, sull’Appia antica.
Ho visitato la mostra insieme a due guide d’eccezione, ovvero due dei tre curatori: Stefano Roascio (cui mi lega un’amicizia quasi ventennale, oltre che le comuni origini nel Ponente Ligure) e Francesca Romana Paolillo (di cui avevo già grandissima stima prima, e che si è distinta per la sua calma e il suo rigore scientifico in occasione della recente scoperta della statua al Parco Scott, quando si è trovata a dover rispondere a decine di commenti critici e denigratori, rivendicando la correttezza dell’operato proprio e dell’archeologa sul cantiere: una storia social, questa, che è un caso studio che prima o poi affronterò). Tornando alla mostra, nei prossimi paragrafi illustro i buoni motivi per cui non solo vale la pena, ma è proprio importante visitarla.
1 – Patrimonium Appiae: reperti mai visti
La prima cosa che viene sottolineata in mostra è che vedremo esposti, lungo il percorso espositivo, reperti mai usciti prima dai depositi, sia perché provenienti da scavi recentissimi, sia perché provenienti da contesti di scavo magari datati, ma comunque inediti. La mostra è quindi l’occasione per fare il punto della situazione sulle ricerche decennali lungo l’Appia antica, un territorio che ha rischiato davvero grosso durante le selvagge lottizzazioni e il boom edilizio degli anni ’60 e che se non fosse stato per personaggi del calibro di Antonio Cederna, probabilmente sarebbe oggi irrimediabilmente compromesso.
Chi percorre oggi l’Appia antica, affascinato dal paesaggio (che indubbiamente colpisce anche chi non ha alcun interesse verso l’archeologia) vede da un lato e dall’altro della strada monumenti funerari più o meno monumentali, il complesso di Cecilia Metella – Castrum Caetani, il complesso di Capo di Bove, la Villa dei Quintili. Vede un paesaggio sicuramente stratificato, con grandi testimonianze monumentali, tuttavia percepisce tutto ciò come immoto, come bloccato, sospeso nel tempo. E invece la ricerca archeologica si muove e rende dinamico questo paesaggio apparentemente statico.
2 – Patrimonium Appiae: l’organizzazione topografica della mostra
Parliamo di Appia, sì, ma in realtà parliamo di tre direttrici viarie molto connesse tra di loro: oltre all’Appia infatti, corrono vicine la via Latina e la via Ardeatina. Ecco che il percorso espositivo si sviluppa lungo queste tre direttrici, ciascuna identificata da un colore, per meglio orientarsi topograficamente. Proprio questa differenziazione su base topografica, con la riproposizione ogni volta, di una mappa di orientamento, è il valore aggiunto di questa mostra. Perché si sarebbero potuti adottare criteri espositivi tra i più disparati (cronologico, tipologico, storia degli scavi, gerarchia dei complessi monumentali…) ma il criterio topografico si rivela ancora una volta l’unico grande livellatore, in grado di mettere tutti i contesti sullo stesso livello, immediatamente riconoscibile, immediatamente individuabile e soprattutto misurabile.

3 – Tracce di preistoria sull’Appia
Chiaramente non posso descrivere qui tutta la mostra: vi invito piuttosto a visitarla. Qui e ai paragrafi che seguono indicherò i contesti o i reperti o, ancora, gli allestimenti, che più mi hanno colpito. Le mie scelte sono assolutamente personali: sono certa che chi di voi visiterà la mostra uscirà da Santa Maria Nuova colpito da altri reperti e contesti.
Per me, che non sono una paletnologa, né ho particolari affinità con la disciplina, scoprire che lungo l’Appia antica si incontra un sito preistorico è una notizia di quelle che fanno sobbalzare: ma che ci fanno delle industrie litiche qui? Ci troviamo tra il V e il VI miglio dell’Appia, tra Santa Maria Nova e il mausoleo di Casal Rotondo. Il sito fu individuato nel 1984 e ulteriormente indagato dieci anni fa circa dall’Università di RomaTre: sono emersi molti manufatti in pietra, in particolare grattatoi e bulini, datati tra i 38.000 e i 34.000 anni fa, durante la fase cosiddetta Aurignaziana che caratterizza la vita e la cultura materiale dell’Homo Sapiens durante il Paleolitico Superiore.
4 – I Tumuli degli Orazi, tra mito e realtà
I cosiddetti Tumuli degli Orazi sorgono lungo l’Appia di fronte alla villa dei Quintili. Sorgono nel luogo in cui, secondo il mito della Roma delle origini, qui si compì lo scontro epocale tra i tre campioni di Roma, gli Orazi, e i tre di Alba Longa, i Curiazi, scelti per stabilire la supremazia di una città rivale sull’altra durante il regno di Tullo Ostilio (VII secolo a.C.). I due sepolcri, realizzati evidentemente all’antica, a imitazione dei tumuli principeschi etruschi, non sono chiaramente attribuibili sul serio agli Horatii; piuttosto essi sono due cenotafi, eretti per commemorare e celebrare storicamente il mitico scontro tra Orazi e Curiazi. Forse in funzione turistica? Chissà: ancora molto poco sappiamo sul turismo in età antica, se non per pochi cenni lasciati qua e là in letteratura. Sicuramente, però, il richiamo all’episodio eroico, parte fondante del patrimonio culturale di ogni civis romanus, doveva essere evidente.

5 – Le epigrafi dalla basilica circiforme di papa Marco
La basilica paleocristiana di Papa Marco è illustrata oltre che dal grande plastico che ne restituisce la pianta e l’elevato, anche e soprattutto dalle numerose iscrizioni e da quel piccolo salvadanaio fittile, in terracotta, appartenuto a un bambino sepolto presso la basilica, che ci commuove per questa piccola vita così presto stroncata.
Le altre iscrizioni esposte sono interessanti perché in alcuni casi si tratta di reimpieghi di lastre precedenti sulle quali sono raffigurate scene animali, marine oppure di uccelli.
6 – Col videomapping ti racconto la storia dell’Appia
Una storia più che bimillenaria, visto che la strada fu inaugurata da Appio Claudio Cieco nel IV secolo a.C. Una piccola stanza dell’Antiquarium di Santa Maria Nova è adibita alla visione di un videomapping che racconta la storia della via Appia dalle origini ai giorni nostri. Un video suggestivo in cui alle ricostruzioni e alle mappe si alternano le voci narranti di personaggi che calcarono l’Appia nel corso della sua lunghissima storia.
Il videomapping è stato realizzato dall’azienda Katatexilux, lo stesso soggetto che ha realizzato i videomapping e la realtà immersiva per Cecilia Metella – Castrum Caetani.

7 – Erode Attico, il tempio di Sant’Urbano e un giallo storico
Un vero e proprio giallo storico è quello che investe Erode Attico, l’uomo più ricco del suo tempo durante il regno di Adriano, il quale fu accusato, ma poi scagionato, di essere il mandante dell’assassinio della moglie Annia Regilla, colpita a morte a calci da uno schiavo, lei incinta all’ottavo mese. Si dice che per allontanare da sé il sospetto Erode Attico fece costruire per la moglie amatissima (sic!) tragicamente scomparsa, il triopio, un grande complesso che avrebbe dovuto ospitare anche la tomba-cenotafio della moglie. Si ritiene tradizionalmente che tale tomba cenotafio sia l’attuale tempio di Sant’Urbano, oggi in proprietà privata, in un’area che si colloca tra l’Appia e il Parco della Caffarella. Sebbene l’ipotesi sia suggestiva e per lungo tempo l’analisi stilistica delle murature del tempietto – poi trasformato in chiesa cristiana – abbia attribuito la costruzione al II secolo, in linea quindi con la morte della povera Annia Regilla, tuttavia le analisi più recenti, accompagnate da alcuni saggi di scavo nei pressi, orienterebbero verso una datazione più tarda. Il mistero intorno alla morte della povera Annia Regilla si infittisce ulteriormente. Chissà se avrà mai pace.

8 – L’orsetto a rilievo, simbolo della mostra
Un piccolo frammento di rilievo funerario raffigura una bestiolina non particolarmente ben riuscita allo scultore: probabilmente si tratta di un orso, ma l’immaginazione deve lavorare parecchio. Questo frammento di sarcofago si data al 270 d.C. e doveva raffigurare una scena di caccia complessa nella quale, oltre all’orso in questione, dovevano essere raffigurati anche dei cinghiali.
Questo piccolo frammento di sarcofago sicuramente non è l’opera più rappresentativa esposta in mostra. Eppure proprio per la sua tenerezza, le sue ridotte dimensioni, la sua delicatezza, è stata scelta come copertina del catalogo.

9 – Armi della II Guerra mondiale
Dalla villa dei Sette Bassi proviene un rinvenimento decisamente poco convenzionale: armi della II Guerra Mondiale in uso alle guarnigioni di tedeschi e italiani rimasti a difendere Roma durante la Liberazione da parte degli Alleati. Non ho memoria di altre mostre archeologiche nelle quali siano stati esposti reperti così recenti, eppure la loro esposizione non disturba, tutt’altro: è segno di una narrazione diacronica dei luoghi e spiega meglio di ogni altra cosa ciò che significa “archeologia globale” intendendo con essa tutto ciò che ha a che fare col passato, nel lungo e nel breve periodo, senza gerarchie tra i materiali. E le armi della II Guerra Mondiale sono assoluta testimonianza del passato più recente dei luoghi. In attesa di una metodologia archeologica che ne regoli il trattamento, lo studio e la trasmissione – così com’è avvenuto in anni recenti per la Grande Guerra – le armi dalla Villa dei Sette Bassi testimoniano un uso – evidentemente inconsapevole – di un luogo archeologico per finalità militari. Da archeologa, non posso che restare affascinata di fronte all’evidente cambiamento di destinazione d’uso di un luogo peraltro da secoli abbandonato.
10 – Il catalogo della mostra: un’opera monumentale
Il catalogo della mostra “Patrimonium Appiae“ non è esattamente un volume agevole. Ma, com’è esattamente nello spirito della mostra, si pone come punto di arrivo, punto della situazione sulla storia degli studi e degli scavi fatti fin qui. Al suo interno trovano posto saggi di carattere generale, schede topografiche particolareggiate sui singoli contesti trattati in mostra e le schede di catalogo dei reperti esposti. Un’opera davvero magistrale, un catalogo ragionato nel quale oltre a fare il punto della situazione sulle conoscenze si rende conto dei più recenti rinvenimenti. E se la mostra, per sua natura, è effimera e presto, ahimè, vedrà la sua conclusione, il catalogo resta, monumento aere perennius, gli auguro.
Il bonus: la statua in veste di Ercole da Parco Scott
Ho accennato a questa statua en passant all’inizio del post. Questa statua è venuta in luce recentemente e ha fatto scalpore presso la comunità scientifica, e non solo, per le circostanze del rinvenimento. Durante un’assistenza archeologica a lavori di smantellamento di un vecchio condotto fognario collassato in più punti, sotto metri e metri di terreno di riporto, è venuta in luce la statua di un personaggio maschile dal volto scavato e anziano, rugoso, con leggerissima barba, vestito come Ercole, con la leonté, la pelle di leone che è suo attributo principe.
Senza entrare nel merito delle polemiche gratuite che sono sorte a seguito della pubblicazione sui social del Parco archeologico dell’Appia antica della notizia, dirò solo che la scoperta ha fatto scalpore e che dopo lo stupore iniziale dovuto alle circostanze del rinvenimento (cui, come dicevo all’inizio, la dott.ssa Paolillo ha risposto punto per punto) è scattato il toto-personaggio: chi è ritratto come Ercole nella statua? L’ipotesi prevalente, in questo momento, è quella di un ritratto in veste di Ercole dell’imperatore Decio, ritratto con le rughe tipiche della sua angoscia. Si tratta naturalmente di un’ipotesi di lavoro, rassicura Paolillo. Ma appena sarà possibile la statua entrerà a far parte del percorso espositivo di Patrimonium Appiae. E sarà il giusto punto di arrivo di una mostra che ha fatto del racconto delle nuove prospettive di ricerca il focus della sua intera narrazione.
