Lavorare nel web: 6 dibattiti teorici che devi conoscere

L’importanza del dibattito per lo sviluppo di una disciplina

Chi si occupa di comunicazione culturale nel web, che si tratti di blog, di social media, di web writing, oltre a conoscere bene la pratica del proprio lavoro, a partire dall’utilizzo degli strumenti, deve secondo me conoscere un minimo il dibattito teorico che da sempre accompagna lo sviluppo degli User Generated Contents e che costruisce la base di discussione e di confronto, feconda come fecondi sono sempre tutti i dibattiti teorici, che sono di sostegno e spesso indirizzano il procedere di una disciplina e di un metodo. Senza dibattito non c’è evoluzione, senza un contraddittorio che metta in discussione una pratica dominante, un metodo, un modello, si rimane nell’immobilismo.

In archeologia sappiamo bene come il dibattito sia importante: se non si fossero messi in discussione il metodo e le finalità dell’archeologia negli anni ’60-’70 la disciplina non si sarebbe sviluppata nel modo in cui la pratichiamo oggi. Concetti come archeologia globale, per esempio, nascono proprio da una riflessione sull’oggetto dell’archeologia: un dibattito che ha portato ad un’evoluzione della disciplina, ad un ampliamento del concetto, e ad una serie di problemi aperti che sono tuttora linfa vitale. Anche l’archeologia stratigrafica nasce da una discussione sul metodo e come dimenticare il dibattito sempre in voga sul Matrix di Harris?

Tornando a noi (questo post non è specifico per gli archeologi, ma per tutti coloro che si occupano di comunicazione culturale nel web), è importante conoscere i dibattiti teorici alla base del web 2.0. D’altra parte, senza sapere da dove veniamo, è difficile capire dove vogliamo arrivare.

In questo post voglio ripercorrere per sommi capi, ma fissando alcuni punti fondamentali, il dibattito teorico alla base del web di oggi. Secondo me si tratta di capisaldi importanti, che hanno implicazioni notevoli anche nel campo della comunicazione culturale.

Innanzitutto ve li anticipo in quest’infografica verde speranza. A seguire leggete punto per punto di cosa si tratta:

dibattito teorico in internet

1) Esperto vs Dilettante: la democratizzazione dei media

Quando prese piede il web 2.0, con blog, wikipedia e youtube, si aprì un grosso dibattito tra conservatori ed entusiasti della rete. I conservatori vedevano nella possibilità per chiunque di immettere contenuti in rete uno svilimento della cultura globale, a favore dell’aumento del pressapochismo e della cultura del copiaincolla. Dall’altra parte i sostenitori della democratizzazione dei media vedevano nell’apertura a tutti della generazione dei contenuti la possibilità per chiunque di emergere e di dimostrare che non era un incompetente, ma al contrario era in grado di competere con gli “esperti”. Il culto del Dilettante, come lo definì Andrew Keen in “Dilettanti.com” fu la molla che consentì lo sviluppo degli User Generated Contents. Inoltre, con l’avvento dei blog e poi ancora di più con i social media, si diffuse il citizen journalism, che ha cambiato totalmente le regole del gioco del fare informazione non solo nel web, ma anche nel mondo reale.

Come questo dibattito ha influenzato la rete?

Dilettanti.com
Andrew Keen, Dilettanti.com

Dal 2005, anno in cui scriveva Andrew Keen, a oggi, tante cose sono cambiate e molti, che all’epoca sarebbero stati considerati dilettanti, oggi sono invece gli esperti. Non a caso in rete la cosa importante, per chi si occupa di blogging e di social media, è la reputazione. La reputazione viene sia dalla qualità dei contenuti che si postano, che dalla capacità dell’autore di porsi come voce autorevole nel settore per il quale scrive, nonché dalla sua disponibilità a fidelizzare con il lettore. Questi elementi hanno fatto sì che il web 2.0 sia tornato appannaggio degli “esperti”. La differenza oggi sta tra professionisti del web e non e il dibattito si è spostato sulla grande massa e sull’analfabetismo funzionale.

2) Privacy e diritto d’autore

La condivisione e lo scambio di dati sensibili, intesi non solo come immagini personali, ma anche come scambio di documenti, acquisti online e simili, se da un lato è diventato una prassi nella nostra gestione di acquisti e di rapporto con aziende o istituzioni (o per lo meno, così dovrebbe sempre più diventare) dall’altro è stato sempre accompagnato dalla “paura” del grande occhio della rete. Certo, il web è pieno di truffe online e del rischio che si possano hackerare profili social e siti web a scopi criminosi. Tuttavia questa non è certo la prassi. Ma soprattutto nei primi tempi in cui ciò avveniva i media tradizionali ebbero buon gioco a cavalcare l’onda della paura e della diffidenza nei confronti degli occulti manipolatori della rete.

Credits: blog.artera.it

Si sviluppò tuttavia una riflessione sulla privacy, ovvero su quanto di noi possiamo e/o siamo disposti a mettere online. Senza nasconderci dietro un dito, sappiamo bene che qualsiasi ricerca noi facciamo su Google è per Google fonte di informazioni sui nostri interessi. Il risultato è che ci vediamo proporre contenuti, promozioni, pubblicità, in linea con le nostre ricerche. Google lo fa perché il suo algoritmo pensa che queste cose ci interessino e quindi anticipa i nostri desideri. Ma questa può essere letta come una forte ingerenza nella nostra privacy e a più riprese genera ondate di diffidenza verso la rete. Da ultimo, lo scandalo che ha avvolto facebook riguardo la profilazione degli utenti a scopi elettorali, ha nuovamente ingenerato diffidenza e paura.

La questione è differente se si parla di ciò che noi scientemente condividiamo della nostra vita privata. Sta al buonsenso o viceversa alla nostra voglia di mostrare noi stessi (esibizionismo nei casi più esagerati) ciò che condividiamo sui social. Ma non è questo il luogo in cui discutere di cosa occorre o meno condividere. Però il tema ha infiammato e infiamma il dibattito sull’etica in internet.

Strettamente legato al discorso del furto della privacy è il problema del diritto d’autore. Questo tema è stato al centro del dibattito per lungo tempo ed ha portato alla creazione delle licenze Creative Commons, che tutelano il diritto d’autore nel web contro lo smodato utilizzo del copincolla. Alle Licenze Creative Commons si è giunti dopo un lungo dibattito, necessario per tutelare quella terra di nessuno che inizialmente era il web 2.0. Analogo problema riguarda l’utilizzo delle immagini.

3) Internet ci rende stupidi e noi su internet diventiamo imbecilli: analfabeti funzionali della rete

Umberto Eco. Credits: wikipedia

Internet ci rende stupidi è il titolo di un libro di Nicholas Carr che, usando come base le neuroscienze e il pensiero filosofico vuole dimostrare che internet ha cambiato il nostro modo di ragionare. Il titolo è senza dubbio fuorviante, e fatto apposta per attirare l’attenzione. La tesi dell’autore di fatto è interessante: dice sostanzialmente che internet, il modo di cercare informazioni, di leggere e di fare ricerca funziona in modo diverso da come di base funziona il nostro cervello, pertanto adattare il funzionamento del nostro cervello al funzionamento per algoritmi di Google e affini comporta un cambiamento nel nostro modo di ragionare. Da qui a dire che internet ci rende davvero stupidi però ce ne passa. Se non avete letto il libro, un’utile sintesi si trova in queste slide.

Fece scalpore, invece, lo stralcio di intervista ad Umberto Eco, quando disse  che internet ha dato parola agli imbecilli. La sua frase, peraltro avulsa dal contesto e strumentalizzata a dovere, fu interpretata come un’accusa al popol bue della rete che sputa sentenze sui social. In realtà era un’anticipazione di quello che qualche anno dopo sarebbe diventato un topos della rete: il mito dell’analfabeta funzionale.

Analfabetismo funzionale

Analfabeta funzionale in rete è colui che legge rapidamente un titolo, oppure vede un’immagine, e senza peritarsi di approfondire l’argomento, esprime il suo parere, solitamente in maniera accesa ed esagitata, andando ad infiammare discussioni o a condividere contenuti che diventano virali, ma che nella maggior parte dei casi non hanno una base di veridicità, quantomeno non totale. L’analfabeta funzionale di fatto è un pigro della rete, una persona che non ha tempo né voglia di andare a verificare se l’informazione che ha letto è vera, chee si basa sul primo link aperto, senza rendersi conto se il link è autorevole oppure no, e che però sulla base di questa superficiale informazione ottenuta, esprime e rilancia il proprio parere in merito. La conseguenza del dilagare di questa forma di analfabetismo funzionale (che in realtà è un fenomeno di ampia portata e che non riguarda solo il web), è il proliferare delle fake news in tutti i campi dell’informazione.

4) Fake news e post-verità: un fenomeno non social, ma sociale

Il recentissimo libricino di Walter Quattrocchi e Antonella Vicini, Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità, pubblicato per la rivista Le Scienze, fa il punto della situazione su internet, comunicazione, fake news e società contemporanea. Lo fa senza dare giudizi, ma semplicemente presentando i dati: il fenomeno delle fake news non nasce con i social, ma i social sono una cassa di risonanza notevole attraverso la quale far passare messaggi di qualsiasi tipo, notizie false incluse. Da questo testo colgo la distinzione tra due fenomeni differenti, ma che spesso vengono confusi: fake news, appunto, e post-verità. In particolare:

Post-verità è definito (dall’Oxford Dictionary) “ciò che è relativo a, o denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali” ed è una tendenza alla base della diffusione di fake news, altra definizione entrata ormai nel vocabolario comune e molto spesso abusata o confusa con quella di post-verità. Sembra siano emersi solo in questi anni, ma entrambi i fenomeni sono parte della stessa storia della conoscenza e della società.

Le fake news sono sempre esistite: in particolare nell’agone politico, di ogni tempo, sono il discredito, la calunnia, la creazione ad arte di notizie false con lo scopo di indignare ed influenzare l’opinione pubblica. Le fake news sono dunque bufale create appositamente. Ma vi è anche un altro tipo di fake news: la propagazione in rete della notizia non verificata, per quella corsa spasmodica allo scoop che rischia di diventare il giornalismo nell’era dell’informazione in tempo reale.

Pinocchio, il bugiardo per antonomasia. Credits: familyandmedia.eu

In ogni caso, è evidente la portata delle fake news: se montate per bene, condite di teorie complottiste e rese virali attraverso tutti i media disponibili, social in primis, hanno il potere di orientare scelte politiche o dell’elettorato. Per questo in Francia il presidente Macron ha proposto una legge anti fake news; per questo l’Unione Europea si sta ponendo il problema.

Nel suo piccolo (si fa per dire) anche Facebook vuole risolvere il problema delle fake news ponendo nuove regole nella condivisione di notizie: https://www.franzrusso.it/condividere-comunicare/ecco-come-facebook-contrastera-le-fake-news-con-articoli-correlati-e-info-su-autore/

Cos’hanno a che fare le fake news con l’archeologia?

Su questo blog in passato ho parlato spesso di fantarcheologia, ponendo l’attenzione sul fatto che in un mondo in cui l’archeologo non comunica il suo lavoro e le sue scoperte a quella società nella quale è calato e cui appartiene il passato, è ovvio ed evidente che si alzeranno persone senza alcuna competenza che potranno inventare storie verosimili senza paura di avere un contraddittorio. Dalle piramidi e gli alieni, dalle stirpi dei Giganti, ad Atlantide variamente riconosciuta nella Sardegna o chissà dove, alle piste di atterraggio di Nazca ecc., se si cerca in rete troveremo tantissime pagine web che raccontano ciò che “l’archeologia ufficiale vorrebbe nascondere“. Anche nel caso della fantarcheologia, però, non è il web 2.0 il luogo di nascita e di propagazione di queste fake news. Peter Kolosimo fu il primo a creare questo genere letterario, potremmo definirlo, e una certa tendenza a mettere la pulce nell’orecchio allo spettatore sui temi dell’archeologia lo faceva molto spudoratamente in anni passati la trasmissione tv Voyager. Anche nel suo romanzo “Quasi giallo” Enrico Giannichedda affronta il tema della fantarcheologia: un tema sempre caldo, mai sopito, cui gli archeologi devono guardare con attenzione.

stargate
Un fotogramma del film Stargate. Credits: wikipedia

Il tema delle fake news in archeologia, soprattutto relativamente all’antico Egitto, è piuttosto dibattuto. Per una disamina sul tema invito a vedere la presentazione che Mattia Mancini, egittologo e blogger, ha tenuto in occasione del workshop “Social Media per la cultura. Istruzioni per l’uso” lo scorso 1 dicembre 2017.

Cosa possiamo fare noi archeologi contro le fake news di archeologia in rete? Possiamo contrastarle facendo buona comunicazione attraverso blog e social media, ponendoci finalmente vicino agli utenti, costruendo un dialogo, facendoci riconoscere come autori ed esperti degni di fiducia, spiegando le nostre tesi in modo comprensibile ad un pubblico il più ampio possibile. Non per nulla su questo blog esiste la categoria “archeowebwriting” ed è stato scritto il libro Archeosocial: per far sì che gli archeologi possano maneggiare gli strumenti web e social nell’ottica di costruire un rapporto che è una narrazione del proprio lavoro e di tutto ciò che è archeologia.

5) Vita virtuale/social vs relazioni nel mondo reale

Credits: Tuttafirenze.it

Nel suo “Internet non è la risposta” Andrew Keen nel 2011 tra le altre cose fa notare come internet prima e i social media poi abbiano cambiato le persone e le relazioni tra le persone. Le persone sui social esprimono tutto il loro narcisismo, che implica continua ricerca di approvazione, da un lato, e di messa in mostra dall’altro. Anche il troll, colui che sui social a prescindere scrive contro e provoca per il gusto di farlo, è a suo modo un narcisista. Per i narcisisti digitali i social sono degli “specchi gratificanti” (per citare nuovamente Quattrocchi-Vicini): inutile dire che l’effetto più macroscopico è il selfie, enfatizzato e abusato in certi casi; perché le foto ricordo ce le facevamo anche ai tempi delle macchine fotografiche col rullino, ma all’epoca non potevamo pubblicarle in tempo reale con la speranza di ricevere like su like.

Nell’arena dei social i toni sono sempre, spesso, anzi, sopra le righe. A fronte dell’opinione espressa da qualcuno, o di una notizia di cronaca, si scatenano vere e proprie ondate di rabbia, o di difesa, che trascendono i toni della discussione pacata e arrivano subito all’offesa personale. Un esempio, tra i tanti, che mi ha colpito: i commenti su una pagina fb che aveva riportato il link all’articolo di Generoso Urcioli che sul suo blog spiegava ciò che pensa di Alberto Angela; in quel caso accesi sostenitori del “divulgatore” per antonomasia si sono scagliati contro l’autore (archeologo che sul suo blog ha semplicemente espresso un’opinione, condivisibile o meno, ma certo non da insultare) offendendolo particolarmente e giocando sul fatto che la pagina fb in questione non era dell’autore, ma di terzi: offese gratuite e anche abbastanza vili,  ma assolutamente in linea con quanto avviene quotidianamente in ogni campo: in ambito politico, nell’attacco all’uno o all’altro esponente, in ambito medico, nella querelle no-vax, ma anche semplicemente in luoghi che dovrebbero essere rilassati, come i gruppi facebook in cui si discute di ricette o di viaggi. Per quale motivo arrivare a offendere una persona che non si è mai incontrata, per il gusto di farlo? La rete nasconde, la rete sostituisce l’incontro reale e rende tutti più coraggiosi di esporsi e di esprimere in malo modo le proprie opinioni.

6) Cultura umanistica vs cultura scientifica

Questo dibattito in realtà è vecchio come il cucco, ma è solo negli ultimi anni che è tornato prepotentemente di moda.

Quando frequentavo il Liceo Classico, c’era la giusta e sana contrapposizione con il Liceo Scientifico, giustificata a Imperia, dove i due licei avevano lo stesso preside, quindi erano come fratelli. Ma al di là delle scaramucce scherzose, che potevano sfociare al più in una t-shirt con una stampa umoristica, nessuno si sarebbe mai permesso di dire che una delle due scuole era superiore all’altra, che una delle scuole era utile perché formava in materie utili e l’altra formava in materie inutili.

Le varie riforme della scuola che si sono succedute negli ultimi decenni hanno portato a vedere sempre più la scuola come il luogo non in cui si forma la propria base culturale, sociale e il senso civico, ma il luogo in cui si studia nell’ottica di trovare un lavoro. Sì alle materie economiche e pratiche, tagli alle ore di storia dell’arte e di discipline umanistiche, riforma del programma di storia fin dalle elementari. Queste riforme si riflettono poi nella società, per cui non è strano che qualcuno dica che le materie umanistiche non servono a nulla. Con toni più o meno alti a seconda dei casi, sostenitori delle materie scientifico/economiche attaccano i sostenitori delle materie umanistiche accusando queste ultime di non fornire alcun sapere pratico e utile al futuro lavoratore di domani.

Cultura umanistica ai tempi dei social. Ad esempio l’Inferno di Dante al tempo delle emoticon: banalizzazione o nuove narrazioni?. Credits: rm-style.com

Il dibattito è interessante perché tolte le motivazioni addotte dai detrattori delle materie umanistiche, è evidente che le materie umanistiche devono trovare il modo di farsi rilanciare. Le materie umanistiche forniscono il metodo, la chiave di lettura e di interpretazione della realtà. Senza cultura umanistica non esisterebbero neanche le materie economiche, ça va sans dire, ma ogni tanto il dibattito si infiamma, ed è palese che se le materie umanistiche non ripensano se stesse e, nell’era dei social, non diventano più competitive, ci saranno sempre più detrattori.

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