gertrude bell ostia 1910

Women & ruins: archeologhe che fotografano

Per poter visitare la mostra “Women & ruins” ho affrontato i 126 scalini della Scalea del Tamburino, ma ne è valsa la pena.

C’è più di un motivo per cui volevo visitare questa mostra organizzata dall’American Academy in Rome presso la propria sede sul Gianicolo e visitabile fino all’8 novembre 2025 il venerdì e il sabato dalle 16 alle 19.

Motivo numero uno: sono archeologa e se l’archeologia è una materia frequentata – anche lavorativamente – da numerosissime donne, all’epoca (parlo di fine Ottocento – prima metà del Novecento) non era così. Perciò mi affascinano, e ammiro, donne che sono state pioniere in un ambito nato maschile e ancora oggi prevalentemente maschile nei ruoli apicali.

Motivo numero due: da responsabile di un archivio fotografico di natura archeologica, l’Archivio Fotografico di Ostia antica, mi affascina esplorare il mondo della fotografia di archeologia ai suoi albori. E se le fotografe, come in questo caso, sono donne, mi affascina ancora di più.

Motivo numero tre: tra le protagoniste di questo sguardo rivolto al passato attraverso lastre d’argento e albumina, c’è una mia vecchia conoscenza: Gertrude Bell. E scoprire che tra i suoi scatti (pochi in realtà) esposti, ce n’è uno fatto a Ostia antica, a un capitello (in copertina in questo post) non fa che ulteriormente sentirmi legata a questa donna così importante per la storia dell’archeologia e ancor di più del Medio Oriente.

Fin qui vi ho detto perché ho visitato la mostra “Women & Ruins“. Ora vi dico perché, secondo me, dovete approfittare degli ultimi due weekend a disposizione per andare anche voi.

“Women & Ruins”: una mostra piccola ma importante

Come scrivevo in un post precedente, stanno aumentando, fortunatamente, gli studi di storia dell’archeologia che puntino la lente sulla componente femminile. Fin dagli albori della disciplina le donne si sono interessate di archeologia; ma per un motivo o per un altro hanno sempre occupato posizioni subalterne rispetto ai colleghi maschi. Così la loro importanza per l’avanzamento della disciplina, sia dal punto di vista della ricerca che dal punto di vista metodologico, ha sempre stentato a emergere. Per esempio, lo sapevate che un volume sulle tecniche edilizie romane fu pubblicato da Marion Blake nel 1947, ben 10 anni prima che Giuseppe Lugli, da sempre dall’Accademia italiana considerato il padre delle tecniche edilizie, pubblicasse il suo “La tecnica edilizia romana, con particolare riferimento a Roma e Lazio“? Ebbene, in mostra è esposto un volume, sfogliabile, dal frontespizio fino alle tantissime tavole di immagini fotografiche, del vero e proprio catalogo che Marion Blake e la sua mentore Esther B. Van Deman composero nel corso degli anni, documentando, studiando, confrontando, murature provenienti da contesti ben diversi (altro che Roma e Lazio: fino ad Aosta si sono spinte nella loro ricerca, hanno sconfinato nelle Marche e fino a Pompei, Benevento e Tindari in Sicilia).

Una delle pagine di tavole del volume di M. Blake del 1947

Archeologhe che studiano, ricercano, documentano, riconoscono il proprio valore

Parto da questo capitolo della mostra intitolato significativamente “The shape of a wall” proprio per sottolineare quanto le archeologhe – in questo caso americane e inglesi, ma per quante possano essere le nazionalità, anche italiane, greche, tedesche – non abbiano necessariamente svolto ricerche “minori” rispetto ai colleghi maschi, ma abbiano avuto sempre un occhio accurato, personale, mirato nei confronti della disciplina. E in mostra questo sguardo viene più volte fatto notare. Non per nulla è una mostra non sulle ricerche archeologiche, ma sulle fotografie che le archeologhe facevano a supporto di quelle ricerche. Il tema mi è caro, tra l’altro, avendo io a che fare con un’archeologa legata a Ostia e che a Ostia ha lasciato un suo personale fondo di fotografie: Raissa Gourevich Calza. Su Raissa fotografa prima di me è stato scritto ampiamente da Jane Shepherd, quindi non sto qui a prendermi nessun merito. Ma proprio aver a che fare con i fotogrammi di Raissa, a guardare attraverso l’obiettivo fotografico della sua Rolleiflex, mi ha fatto capire che effettivamente lei aveva un suo personale modo di vedere l’archeologia intesa sia come contesti archeologici che come oggetti, reperti che sotto la sua lente talvolta sembrano quasi vivi. Nel suo caso, sicuramente il suo sguardo non comune era dato dalla sua esperienza di artista, attrice di teatro e musa di De Chirico, ma questo nulla toglie al fatto che anche qui in mostra emergono peculiarità dovute alle personalità di ciascuna delle archeologhe-fotografe.

Tra l’altro: non è così scontato che delle archeologhe sapessero e potessero utilizzare, a fine Ottocento, le macchine fotografiche campagnole, che presupponevano un grosso corpo macchina, un altrettanto ingombrante cavalletto e una serie di lastre di vetro, certo non leggere e anzi piuttosto fragili, per imprimere le fotografie. Quindi interviene anche un altro valore: le archeologhe sanno anche fotografare. Non è scontato. Oggi lo diamo per assodato, perché con le moderne fotocamere son buoni (quasi) tutti, ma all’epoca, in cui tra l’altro la fotografia muoveva i suoi primi passi, questo non era affatto scontato.

Una delle due macchine fotografiche utilizzate da Esther B. Van Deman. Vedere nelle stesse sale la macchina fotografica, le fotografie e il volume nel quale sono state fotografate è davvero emozionante

Così, le fotografie delle archeologhe selezionate per la mostra “Women & Ruins” sottolineano questo sguardo diverso rispetto ai colleghi maschi: si tratta, per esempio, di inserire talvolta donne nel contesto archeologico. Inserire persone in contesti monumentali non era strano, lo facevano anche i colleghi maschi per dare un’idea della scala metrica rispetto alle grandi rovine di acquedotti o simili. Le archeologhe invece direttamente si inseriscono nel paesaggio archeologico fotografato senza un ruolo tecnico, piuttosto in pose evocative e che vogliono al tempo stesso rivendicare il proprio ruolo, autoriconoscendosi come studiose non convenzionali e avventurose: un po’ lo stesso spirito che anima le coeve autrici di letteratura di viaggio al femminile, in un mondo, anche quello, sempre considerato appannaggio maschile e solo – al limite – vezzo del gentil sesso. Così Gertrude Bell si fa ritrarre tra le colonne del tempio di Apollo a Corinto nel corso di una vacanza di famiglia, ma veramente poco tempo dopo la scoperta, lo scavo e l’apertura al pubblico di questo sito, il che sicuramente rendeva quell’esperienza importante da immortalare e da raccontare.

Gertrude Bell si fa immortalare tra le colonne del tempio di Apollo a Corinto, 1902, autore della foto sconosciuto

Quando invece fotografano altre donne, queste archeologhe armate di macchina fotografica ritraggono donne del popolo, apparentemente ignare, come nel caso di Marion Blake che a Sepino imprime su pellicola una donna in abito tradizionale intenta ad attraversare l’antico decumano, ancora oggi viabilità parte del tratturo utilizzato per la transumanza.

Un altro aspetto delle fotografie scattate da queste archeologhe è la componente quasi artistica, sicuramente scenografica, senz’altro emozionale. Gertrude Bell che fotografa un capitello corinzio perfettamente conservato e poggiato su un muro a Ostia antica, avulso dal suo contesto originario, ma estremamente elegante e monumentale, è esemplare in tal senso. Si tratta di cogliere il dettaglio, di farlo assurgere a una dimensione di protagonista. E non si tratta di una foto di documentazione, perché la Bell non redige un catalogo dei capitelli corinzi di Ostia, no: si tratta di un elemento di quel paesaggio archeologico – peraltro artefatto, visto che è posizionato in un luogo che non gli apparteneva, ma già con funzione attrattiva, per i visitatori del 1910 – che attira la sua attenzione e al quale dà una veste poetica, ma anche narrativa: cosa può raccontarci del suo monumento originario questo capitello ora poggiato su un muretto tanto rude, quando invece esso è stato magnificamente scolpito da mano artistica e sapiente? Oggi lo chiameremmo storytelling…

Il capitello ostiense fotografato da Gertrude Bell nel 1910

Ho sempre detto che noi archeologhe siamo romantiche. In qualche maniera questa, come altre foto, lo dimostra.

Archeologhe che collaborano tra di loro

Si dice di solito che le donne tra di loro non riescano a collaborare e si facciano guerra, diversamente dagli uomini, che in analoghi contesti fanno squadra. Quindi non è secondario un aspetto messo in luce nella seconda sala della mostra. Mostra che, peraltro, si articola su due sale, e che quindi, dando spazio alle varie personalità, sottolinea l’aspetto collaborativo.

Un’altra delle tavole del volume di M. Blake sulle tecniche murarie, edito nel 1947

Quest’aspetto su cui si pone l’attenzione è quello dei rapporti interpersonali, delle relazioni di lavoro e di studio, che ben si condensa nella sezione finale della mostra “Social Ruins in cui le archeologhe fotografe – pochi nomi, in realtà, che ricorrono e con cui impariamo a fare conoscenza: Esther B. Van Deman, Marion Blake, Gertrude Bell, Agnes e Dora Bulwer – capiscono di rivestire anche un ruolo sociale. Se penso che oggi stenta ancora ad emergere il concetto di “archeologia pubblica” in Italia, pensare a queste donne che nel corso delle loro escursioni di studio, dei loro surveys, incontravano le persone che vivevano nei luoghi, interagivano con loro, magari intervistandole su ciò che sapevano e su ciò che pensavano dei monumenti nelle cui pertinenze vivevano, è senz’altro moderno e interessante. Certo, se lo puliamo da uno spirito e un occhio un po’ colonialista che non possiamo non tenere in considerazione, soprattutto oggi, col senno di poi, e di cui in mostra non si fa cenno.

In questa sezione il documento che mi commuove è la lettera autografa, scritta da Gertrude Bell a Esther B. Van Deman nel 1910 durante il viaggio di ritorno da Spalato e Pola verso l’Italia. Nel ringraziare la Van Deman per le dritte e le direttive che le ha fornito, le riporta alcune osservazioni che ha potuto fare sulle murature del palazzo di Diocleziano a Spalato: all’epoca era consueto scambiarsi osservazioni via lettera e questo esempio di corrispondenza tra la Bell e la Van Deman è solo uno dei – mi immagino – numerosi esempi di tal tipo di scrittura epistolare e di scambio di opinioni tra studiose.

La lettera di Gertrude Bell a Esther B. Van Deman

Del volume edito nel 1947 da Marion Blake sulla scorta degli studi ereditati da Esther B. Van Deman sviluppati e portati da lei avanti ho detto già più sopra, quindi non mi dilungo oltre. Mi soffermo invece su un’altra figura, italiana, non archeologa, ma architetta, che operava in questo fervente contesto culturale e internazionale che si respirava a Roma tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: Maria Pasolini Ponti, personaggio al quale bisognerebbe dedicare ben altro che la vetrina della mostra e le due righe indegne che qui spendo. Architetta, ma soprattutto l’unica socia donna dell’Associazione Artistica tra i Cultori dell’Architettura, ebbe a cuore la condizione delle donne e l’educazione femminile tanto da dedicare una sessione all’educazione femminile al primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane che si tenne nel 1908 quando le donne, lo ricordiamo, non avevano nemmeno ancora diritto di voto. In questo clima culturale, in cui le donne istruite, che comunque stentavano a far sentire la propria voce in un mondo di uomini, cercavano di guardare alle altre donne che per motivi sociali non potevano accedere neanche all’educazione di base, ecco che personalità come Maria Pasolini Ponti riesce in qualche modo, forse, a sensibilizzare le archeologhe americane e inglesi a guardare alle donne italiane del popolo non con l’occhio proprio del colonialista, ma con l’occhio dell’attenzione sociale vera, priva di compassione e di accondiscendenza. Poi come questo possa essersi tradotto concretamente (e d’altronde le nostre archeologhe americane e inglesi celebrate in questa mostra facevano parte di circoli culturali decisamente elitari) non è dato saperlo.

Concludendo

La mostra “Women & Ruins” è sicuramente autoreferenziale, ma è un passo importante innanzitutto nell’apertura degli archivi fotografici storici di istituti culturali e archeologici stranieri (ma anche italiani, perché no?) perché attraverso le fotografie inevitabilmente si ha lo specchio di un’epoca, e stringendo il cerchio alle sole donne si ha lo specchio di una sensibilità di parte. Poi certo, è stata fatta sicuramente una selezione tra le centinaia di fotografie che queste archeologhe hanno depositato negli archivi dell’American Academy in Rome, perciò chissà quante chiavi di lettura si possono ancora tirare fuori da ciascuno dei fondi di queste archeologhe o anche dal fondo di una soltanto… La Ricerca è imprevedibile, può partire da un’idea e aprire altri cento scenari… Sicuramente questa mostra, per quanto piccola ed essenziale, ha aperto (in me sicuramente) diversi spunti di riflessione innanzitutto sulla presenza e sul ruolo delle archeologhe a Roma tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento; sul fatto che di alcune di loro, salvo eccezioni (Bell, più mainstream, forse, Van Deman e Blake decisamente per selezionatissimi addetti ai lavori) siano rimaste ignote a lungo, e quindi sul fatto che ci sia tutto un sottobosco di ricercatrici – ribadisco, in questo caso anglosassoni, ma anche italiane, visto che siamo a Roma – di cui per lungo tempo non si è saputo nulla, adombrate dai loro colleghi maschi.

E poi sarebbe bello ricostruire relazioni, capire con chi dialogavano, fuori dalla cerchia degli archeologi, queste donne nei salotti intellettuali che sicuramente frequentavano: con quali artiste Esther Van Deman avrebbe potuto chiacchierare? Con quali architette lei e Marion Blake avranno discusso di statica dei ponti romani? Di quali scrittrici le sorelle Bulwer avevano letto romanzi e racconti? Con chi andava più d’accordo Maria Pasolini Ponti tra le archeologhe che condividono con lei le sale della mostra?

Tante domande, tante ispirazioni. E’ questo che una mostra, per quanto piccola, per quanto autoreferenziale possa essere, deve fare. E “Women & ruins“, per quanto mi riguarda, ha raggiunto lo scopo.

Donne in archeologia tra fine Ottocento e II Guerra mondiale: una inesaustiva biblio-sito-videografia

Mi sembra doveroso, al termine di questa recensione, innanzitutto rendere onore al merito di un bel catalogo a corredo della mostra, acquistabile presso l’American Academy in Rome e che oltre alle fotografie esposte propone alcuni saggi sull’archeologia nella Roma di fine Ottocento-inizi Novecento, sulla necessità delle archeologhe di imporsi in un mondo prettamente maschile e sulla ricerca di nuove chiavi di lettura, nuovi “sentieri non battuti” proprio per distinguersi dai loro colleghi uomini.

Voglio poi buttare qui nel calderone alcuni riferimenti bibliografici e link reperibili online sul tema delle donne in archeologia tra fine Ottocento e inizio Novecento. Una biblio-sito-videografia decisamente essenziale e sempre troppo scarna sul tema.

Opere generali

Bibliografia

Opere digitali

Gertrude Bell

Bibliografia

Getrude Bell, Viaggio in Siria, Ed. Polaris 2014. Ne ho scritto qui: https://generazionediarcheologi.com/2017/10/02/gertrude-bell-viaggio-in-siria/

Olivier Guez, Mesopotamia, La Nave di Teseo 2025

Opere digitali

Gertrude Bell Archive. Ne ho scritto qui: https://generazionediarcheologi.com/2017/10/05/storie-di-donne-storie-di-archeologia-il-gertrude-bell-archive/

Marion Blake

Bibliografia

Marion Blake, Ancient Roman construction in Italy from the prehistoric period to Augustus. A chronological study based in part upon the material accumulated by Esther Boise Van Deman, Washington, 1947

Raissa Gourevich Calza (che non compare in mostra, ma è stata citata nel post)

Bibliografia

J. E. Shepherd, Da Ostia a Roma e oltre: Raissa Calza e la fotografia, in AA.VV., Lungo il Tevere. Da Roma a Ostia, un percorso per immagini, Acta Photographica. Rivista di fotografia, cultura e territorio, 2009, 113-122

M. Lo Blundo, Il Fondo Calza nell’Archivio fotografico di Ostia antica, Bollettino di Archeologia online, 3/2021

Opere digitali

M. Lo Blundo, Aprite quell’Armadio! Il Fondo Calza nell’archivio fotografico di Ostia antica – Slideshare

900 Talks Pistoia: Faustina e Raissa: nomi e volti dall’antichità al Novecento su Youtube

M. Lo Blundo, Ostia in Guerra. La difesa delle opere d’arte nelle fotografie dell’Archivio Fotografico – Slideshare

idem su Youtube dal minutaggio 1:53:20

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