Liberalizzare le immagini di opere d’arte: c’è chi lo fa (e non è in Italia)

Questo periodo di clausura forzata, di #iorestoacasa e di offerta digitale decuplicata (per fortuna, aggiungo) da parte delle istituzioni culturali sta accendendo più di un dibattito sul piano del digitale, del suo utilizzo, della qualità dei prodotti digitali e della progettualità.

Breve sintesi sui dibattiti in corso a proposito di patrimonio culturale e digitale

Non è questo il luogo in cui intendo parlarne. Uno dei dibattiti, relativo al divario digitale, è stato più che bene affrontato da Nicolette Mandarano nel corso del webinar che ha tenuto per la Fondazione Scuola del Patrimonio pochi giorni fa: riassumendo all’osso: gli italiani non hanno tutti le stesse possibilità di accesso al digitale.

L’altro dibattito è quello relativo alla quantità di contenuti riversati in continuazione in rete sotto qualunque forma: post sui social media, immagini, giochi, video. Se la quantità da un lato mostra quanto le istituzioni culturali sono state reattive nel buttarsi nella mischia della produzione di contenuti digitali, dall’altro tutta questa profusione di contenuti non è sempre sinonimo di qualità. Anzi.

Quantità ha per sinonimo sovrabbondanza e in questo caso fretta. La fretta è la causa, la sovrabbondanza è la conseguenza. E il tutto avviene a scapito della qualità. Fretta va poi in antitesi con progettualità e con strategia. A meno che non sia una strategia quella di inondare la rete di contenuti spesso ridondanti, poco meditati, e senza tenere conto degli algoritmi sottesi alle singole piattaforme social (nonché delle regole di pubblicazione di ogni singola piattaforma social…), né di un minimo di tempo necessario per realizzare una programmazione consapevole.

Ma un dibattito, che ancora sta sotto il pelo dell’acqua, emergerà potente nel prossimo futuro (almeno spero): è il dibattito legato all’utilizzo delle immagini, alla proprietà delle immagini che ritraggono opere d’arte e alla possibilità da parte di terzi di fruirle, di condividerle e, perché no, di salvarle sul proprio device così come si può fare con ogni immagine che si trova su internet e che non sia protetta da qualche blocco. Non è così scontato infatti che si possa fare con tutte le immagini circolanti online del nostro Patrimonio.

Il libero utilizzo delle immagini del nostro patrimonio archeologico e storico-artistico

Breve e inesaustiva storia del dibattito sull’utilizzo delle immagini

Il dibattito sul libero utilizzo delle immagini legate al nostro patrimonio archeologico e storico-artistico in Italia ha avuto un primo momento di svolta una decina di anni fa circa, con l’avvento sui social, finalmente, di un account del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. L’avvento dei Musei Italiani sui social non fu coordinato, ma lasciato alla libera iniziativa di ogni singolo istituto. Questa era la situazione quando nel 2014 si tenne la Giornata Informativa sui social network del MiBACT. Così, a seguire, chi prima chi dopo, a macchia di leopardo più o meno tutti i Luoghi della Cultura del MiBACT si sono aperti ai social, con esiti più o meno efficaci. Alcuni Musei nel corso degli anni hanno sviluppato strategie interessanti e valide, altri hanno subito alterne vicende e cambiamenti di nome e di status, con conseguente modificazione di strategie, ammesso che ne avessero, e visibilità.

Ma ciò che accompagnò l’avvento dei musei sui social fin dall’inizio fu il problema dell’utilizzo delle immagini. In particolare due erano le fattispecie di interrogativo da considerare:

  • Se il museo utilizza una foto di sua proprietà, come fa a far sì che “la gente non se ne appropri“?
  • Se un utente pubblica una foto di un’opera d’arte sui social in teoria non lo potrebbe fare, però in realtà ci sta promuovendo: quindi???

Una prima risposta, molto vaga, e ancora in vigore oggi, è stata la modifica all’art. 108 del D.Lgs. 42/2004 che titola “Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione”.

In particolare ci interessa il comma 3 dell’articolo, quando dice “Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro“, e ancora di più il comma 3bis 1 e 2):

Sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale:

1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose né, all’interno degli istituti della cultura, né l’uso di stativi o treppiedi;

2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro.

Con l’opportuna interpretazione, il comma 3 bis fa riferimento alla pratica dei social, laddove parla di “promozione della conoscenza del patrimonio culturale” e quindi dà anche un’implicita utilità alla diffusione di immagini del patrimonio culturale da parte di terzi, e fa riferimento alla condivisione laddove dice “divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite

Diciamo dunque che fino ad oggi abbiamo lavorato in questa direzione: i Musei condividono sui social e sul proprio sito web immagini che sanno che potranno essere condivise all’infinito; dall’altra parte la tendenza è quella di invitare il pubblico dei musei a postare immagini della propria visita e della propria esperienza. L’epoca del vietato fotografare è finita, almeno nei musei statali (in ancora troppi musei civici, e in molti dei luoghi – a chiunque appartenenti – vincolati ex art. 10 del D.Lgs. 42/2004, c’è ancora il divieto di scattare fotografie).

Eccoci al dunque: a che punto stiamo oggi?

Però.

Però appare chiaro che ormai non basta. Non è più sufficiente. La situazione che stiamo vivendo oggi ci sta finalmente aprendo gli occhi sul fatto che i musei devono poter proporre un’esperienza di visita digitale che possa essere alternativa alla visita reale. L’immagine è al centro, oggi più che mai.

In questi giorni se ne sono sentite tante: virtual tour, passeggiate col direttore, visite virtuali, visite con google streetview. Di tutte salvo soltanto le passeggiate col direttore, perché almeno c’è una persona che non solo ci mette la faccia, ma ci fa vivere l’illusione di condurre la visita guidata insieme a lei. Però non è la stessa cosa. Si sta venendo a creare un gap pazzesco tra quei musei che hanno messo già online la loro collezione permanente, come ad esempio Gallerie Barberini-Corsini e chi invece non ha fatto nulla di tutto ciò, vuoi per opposizione ideologica (vedi alla voce: se vedono le opere già su internet non verranno a vederle dal vivo) vuoi per totale assenza di pensiero strategico in merito (semplicemente, non ci si è mai pensato prima e non abbiamo nulla del genere da offrire).

Questo momento storico ci pone davanti alla sfida del digitale e conseguentemente ci mette davanti all’opportunità di mettere a disposizione di tutti, liberamente, il nostro Patrimonio se pur in forma virtuale.

Tra le buone pratiche, senza dubbio è degna di nota quella dell’ICCD che da pochi giorni ha messo liberamente consultabili alcune risorse fotografiche caricate su flickr: http://www.iccd.beniculturali.it/it/150/archivio-news/4788/ Certo, piccola cosa a fronte dei milioni di fotografie che il Gabinetto Fotografico Nazionale possiede, ma un grande passo per l’Istituto. Certo, andando a vedere la galleria su Flickr, per esempio quella relativa alle fotografie aeree di Ostia antica, scopriamo che non possiamo salvare direttamente l’immagine sul nostro dispositivo (a meno di non fare uno screenshot), però possiamo condividerla su tutti i social possibili e immaginabili. Ripeto, un grande passo per l’Istituto e per l’Italia.

La gallery di foto aeree di Ostia antica messe a disposizione su Flickr da ICCD e liberamente consultabili

La grande lezione del Cleveland Museum of Art

Mirco Modolo, carissimo amico dai tempi del dottorato, oggi collega presso l’Archivio Centrale dello Stato e da sempre impegnato sul fronte della liberalizzazione delle immagini di beni culturali (fondatore di Fotografie Libere per i Beni Culturali), mi ha sottoposto questo video, che risale al febbraio 2019, dunque a più di un anno fa in realtà, ma che vi prego di guardare: a dispetto del tempo che è passato, infatti, propone una novità assoluta.

Si tratta del momento epocale in cui il Cleveland Museum of Art dichiara che la sua collezione di opere d’arte e di archeologia è navigabile online, fruibile da chiunque, ma soprattutto è open access, ovvero ha licenza CC0 (Creative Commons Zero), ovvero ancora: è patrimonio fruibile da qualunque utente per ogni scopo che l’utente ritenga necessario senza bisogno di chiedere autorizzazioni alla pubblicazione o di dover pagare un canone per poterne avere copia.

Attraverso il CMA Open Access Program e le licenze CC0 il Cleveland Museum of Art rinuncia a qualsiasi diritto sulle immagini e sui dati “in modo che un pubblico molto più vasto possa beneficiare della sua illustre collezione“. Nel fare questo il Cleveland Museum of Art è ben consapevole che sta compiendo un passo importante e nel far questo, dice il direttore William Griswold durante il suo discorso, vuole incoraggiare altri istituti a fare altrettanto. E ancora: “in qualunque momento si potranno usare, riusare, rielaborare o reinventare gli oggetti della nostra collezione“: si guarda oltre, dunque, ad un uso creativo dell’opera d’arte, come di opera che può dare origine ad altre opere. E non solo: parla della possibilità di utilizzare le immagini delle opere a fini commerciali, dunque a fini di lucro. Questo è un aspetto senz’altro rilevante.

E gli altri?

Cosa succederà ora?

Sicuramente questa azione del Cleveland Museum of Art non sarà senza conseguenze e nel bene e nel male farà parlare di sé. Appare evidente, però, che un solco sia stato ormai tracciato, una via indicata. Dunque è solo questione di tempo perché anche altre istituzioni nel mondo, e magari anche in Italia, daranno vita ad una rivoluzione nella liberalizzazione delle immagini.

Forse non siamo ancora pronti ad una tale rivoluzione, ma è evidente che le cose devono cambiare e che un dibattito serio e costruttivo sulla liberalizzazione dell’utilizzo delle immagini di beni culturali dev’essere nuovamente animato proprio a partire da ora.

L’immagine di copertina è Books and Scholars’ Accouterments, late 1800s di Yi Taek-gyun (Korean, 1808-after 1883) Collezione del Cleveland Museum of Art, naturalmente CC0

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