Il Museo Ostiense, dedicato alla grande statuaria di Ostia antica, dal 23 luglio fino all’inizio di settembre dedica una sala ad oggetti estremamente piccoli: un gruppo di 20 bronzetti dalla storia piuttosto interessante.
Il panificio di via dei Molini: la storia degli scavi
Correva l’anno 1915. Procedevano a ritmo serrato gli scavi, meglio sarebbe gli sterri, lungo il Decumano di Ostia antica e nelle diramazioni limitrofe. Fin dal 1913 gli scavi si erano concentrati nel settore dove già intorno al 1860 era stato individuato un panificio, il cosiddetto Edificio delle Pistrine (dal latino pistrina, panificio: erano già venute in luce le macine in pietra lavica che contraddistinguono questi impianti). Gli scavi del 1913-1915 portarono definitivamente in luce il grande edificio, un panificio nel quale si svolgeva tutto il ciclo produttivo del pane, dalla molatura della farina all’impasto, alla cottura nel grande forno e alla vendita del pane. Un panificio che probabilmente soddisfaceva oltre che il mercato locale, anche quello dell’Urbe: una produzione quasi industriale, si potrebbe dire, resa possibile anche dalla strategica posizione vicino ai Grandi Horrea, i grandi magazzini di stoccaggio del grano proveniente dall’Egitto e dalle province del Nord Africa (per il tramite di Portus).

Durante gli Scavi, Guido Calza e i suoi hanno modo di capire che l’edificio viene distrutto da un rovinoso incendio alla fine del III secolo d.C.: un cospicuo gruppo di monete con l’effigie di imperatori del pieno III secolo fa orientare verso questa datazione. Dopo l’incendio questo settore della città viene abbandonato e resta così, in rovina.
Nel corso dello scavo di questo grosso livello di distruzione Calza rinviene un cospicuo gruppo di oggetti in bronzo. Si tratta di oggetti eterogenei, per epoca, tipologia, esecuzione e funzione: databili dal I al III secolo d.C. – coprono dunque tutta la durata di vita dell’isolato – sono lucerne, statuette di divinità e di animali, busti di divinità, appliques decorative per mobili e arredi vari. Tutti accomunati dallo stesso destino: crollati miseramente dal piano superiore dell’insula al cui piano terra sorgeva il panificio, sparpagliati sugli strati di crollo di alcuni ambienti, tra cui una bottega affacciata sulla via della Casa di Diana, sul grande ambiente del panificio retrostante e sul piccolo Sacello del Silvano – un piccolo luogo di culto che darà poi il nome all’intero complesso; attendere lì per 1700 anni, quando la squadra di operai guidata da Guido Calza li trovò, nel 1915.
I bronzetti del panificio di via dei Molini

Guido Calza pubblica immediatamente il ritrovamento dei bronzetti sulle Notizie degli Scavi di antichità del 1915. Fornisce una descrizione sommaria degli oggetti, mentre su alcuni, più meritevoli di attenzione, si dilunga di più. Quegli stessi materiali confluiranno anni dopo nell’allestimento del Museo Ostiense, poi verranno tolti, esposti altre volte per brevi periodi nel corso dei decenni e in occasioni di grandi mostre all’estero; infine oggi vengono esposti per poco più di un mese di nuovo nel Museo Ostiense.
I materiali sono eterogenei: lucerne, un vasetto rotondo per unguenti che ancora reca le maglie della catenella con la quale era appeso; statuette di animali, alcune davvero di pregio, altre meno curate; appliques, ovvero arredi di mobili, quindi statuette e busti di divinità.

Le figurine di animali
Due cani, uno più simplificato dell’altro, uno scorpione e un serpente.
Lo scorpione è davvero ben fatto, con le sue zampette anteriori terminanti a tenaglia; il corpo forse è un po’ tozzo e manca la coda sollevata verso l’alto, ma indubbiamente l’oggetto è un bell’esemplare che forse va riconnesso al culto di Mitra (nella limitrofa Casa di Diana nel III secolo si installa un mitreo privato) o più probabilmente allo zodiaco.
Il serpente è davvero eccezionale: un serpentello piccolo, avvolto nelle sue spire, crestato, ma con la pelle squamata resa perfettamente: un oggetto davvero di pregio e stupefacente. Nulla resta lasciato al caso, la resa dei dettagli è davvero eccellente: se non fosse così piccolo potrebbe essere vivo, tanto sembra vibrare la pelle squamata alla luce naturale del giorno.

Le appliques
Quanta cura, direte voi, per arredare un mobile! La borchia a testa di cavallo forse non è un’esecuzione eccellente, ma la prorompente vitalità del cavallo impennato che con le due zampe anteriori (una delle quali rotta) sembra sbalzare fuori dal disco di bronzo è davvero convincente!

La testa di Gorgone è arcaizzante: richiama i gorgoneia greci e magnogreci con la sua testa tonda e schiacciata, incorniciata da riccioli, gli occhi allungati la bocca aperta con la lingua che sporge tra i denti. Perfetto oggetto apotropaico, contro gli influssi maligni, doveva decorare l’ansa di un vaso metallico, date le dimensioni.

Un busto di amorino, con la testa ruotata di scatto a destra, ha il volto paffutello, con un ciuffo di capelli ribelle che dice tanto sulla natura fanciullesca e vivace del figlioletto di Venere.
Infine, uno splendido busto di ragazzo etiope è un capolavoro di realismo: i capelli crespi, gli zigomi sporgenti, gli occhi incavati e le labbra carnose, tutto concorre a rendere un ritratto estremamente curato di questo giovane che l’abbigliamento ci denota come uno schiavo: indossa la paenula, il mantello che termina con un cucullus, il cappuccio tipico dell’abbigliamento della classe servile.
Le statuette di divinità
Tra gli oggetti in bronzo rinvenuti nei livelli di distruzione del panificio di via dei Molini sono attestate anche statuette di divinità. Innanzitutto due busti, un Giove Serapide, riconoscibile per il kalathos, il copricapo cilindrico e svasato che indossa – da molti interpretato anche come modius, il modio cioè la misura di grano simbolo di fertilità – e un Giove Tonante, caratterizzato dalla corona che gli cinge la testa: entrambi sono estremamente curati nella resa di barba e capelli mossi, ma il Giove Tonante ad un’osservazione ravvicinata colpisce per l’espressione del volto, data dagli occhi incavati: il suo modello, nella grande statuaria, deriva da un’opera attribuita all’artista greco Leochares. Il busto, in piccolo, ripropone la potenza del modello originale. Non deve stupire che una statuetta così piccola riproponga in miniatura una statua importante già all’epoca per la storia dell’arte: era costume consueto presso i Romani avere riproduzioni di opere dell’arte greca, anche di piccole dimensioni: ecco dunque il proliferare di tante statuette copie da originali a grandezza naturale. Ciò è oggi per gli studiosi di iconografia di grande aiuto perché in assenza degli originali, per la stragrande maggioranza andati perduti, anche i piccoli bronzi ci possono dare informazione sulla grande bronzistica greca.


La statuetta dell’Ercole Fanciullo riprende infatti lo stesso modello ellenistico della Statua di Ercole Fanciullo dei Musei Capitolini: il bambino, vestito della leonté, la pelle di leone attributo di Ercole che gli copre la testa e gli si annoda sul petto, tiene in mano i pomi delle Esperidi, riferimento alle Fatiche che Ercole dovrà compiere in età adulta e che lo consacreranno nel mito come eroe. Piccola notazione: a Ostia il culto di Ercole è molto sentito soprattutto in età repubblicana: un tempio dedicato a Ercole lungo via della Foce e il rilievo con la “pesca miracolosa” di una statua del dio nel mare di Ostia sono segni tangibili del culto di questa divinità che qui aveva caratteristiche “oracolari”: a lui venivano chieste le sortes, come illustra lo stesso rilievo della pesca miracolosa.
La statuetta più bella, non foss’altro per la base sulla quale è montata, è la statuetta di Lare. Divinità protettrice della vita domestica, il Lare è raffigurato come un giovinetto con la veste svolazzante e una patera in mano per offrire libagioni. La statuetta è montata su una base quadrangolare decorata finemente con foglie di alloro in argento che ne impreziosiscono la fattura.
L’esposizione al Museo Ostiense
Non è la prima volta che questo nucleo di oggetti, eterogenei per tipologia e funzione, ma accomunati dal contesto di ritrovamento, viene esposta al pubblico: innanzitutto essi erano parte del primo allestimento del Museo, che fu inaugurato nel 1933 e che fu oggetto di un riallestimento nel 1962. La guida del Museo realizzata da Calza cita anche questi oggetti quando passa in rassegna tutti i materiali esposti. Dal 2000 il Museo è dedicato solo alla scultura, ma i bronzetti sono stati esposti nel frattempo in mostre specifiche. Infine, oggi tornano nuovamente in museo e vi resteranno fino all’inizio di settembre 2019.
Sul sito web del Parco archeologico di Ostia antica si possono approfondire gli aspetti dell’esposizione dei bronzetti (c’è anche un video che mi vede protagonista, come speaker, niente di più); l’esposizione fa parte del ciclo “Eppur si espone” che vedrà alternarsi fino a dicembre 2019, a rotazione ogni mese, oggetti solitamente custoditi nei Depositi ostiensi, scelti tra i tantissimi per loro particolari elementi di unicità: a giugno per esempio è toccato alle pitture della Tomba 19 della Necropoli di Porto a Isola Sacra.
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