Anche solo 10 anni fa un volume come questo non sarebbe stato pensabile. Ma forse neanche 5. Soprattutto perché l’autrice, Silvia Pallecchi, è docente di Metodologia della Ricerca archeologica presso l’Università di Genova, quindi fa a tutti gli effetti parte di quel mondo accademico che per anni si è scagliato contro chi, in ambiente universitario, e quindi pure al di fuori, associava alla ricerca progetti di divulgazione e di comunicazione presso il più vasto pubblico.

Per carità, esperienze anche in ambito accademico di “archeologia pubblica”, se così vogliamo chiamare (ma la definizione non è del tutto corretta) esperienze di comunicazione e di divulgazione partecipata dell’archeologia (intendendo con “partecipata” non una comunicazione up-down o uno-molti, ma una comunicazione/esperienza in cui entrambi gli interlocutori svolgono una vera azione di costruzione di senso), ma esse per lungo tempo sono rimaste esperienze a sé, non sempre fatte oggetto di pubblicazione accademica perché, per l’appunto, non ritenuto un tipo di contenuto degno di una classe A Anvur (cui tutti ambiscono), spesso anzi rimaste non pubblicate. Grazie al web 2.0 e allo sviluppo nei social queste iniziative anche di impulso accademico hanno trovato spazio e sono state così rese davvero pubbliche. Qualcuno (anche in ambito accademico) ha provato a raccogliere in volumi o riviste di settore alcuni esempi di queste esperienze. Tuttavia mancava ancora un volume che facesse il punto sullo stato dell’arte alla fine del 2022 (e lo so, sto in ritardo di un anno con la recensione), che raccogliesse, senza la pretesa di essere esaustivo, tutta una serie di esperienze in ambito non solo italiano, ma anche internazionale: il che serve sempre, perché noi abbiamo quella certa qual tendenza a badare soltanto al nostro orticello, senza prendere spunto da ambiti – come quello anglosassone per esempio – in cui certo tipo di attività è ben radicato da decenni.
Tutto questo per introdurre l’agile volume di Silvia Pallecchi la quale, nonostante insegni all’Università, e dunque sia inquadrabile come accademica, da sempre nei suoi progetti di ricerca ha dato ampio spazio ad attività di comunicazione e di divulgazione dell’archeologia non convenzionali o non scontate. Da che la conosco io, ha fatto laureare un giovane archeologo, Federico Lambiti, con una tesi che di fatto era un romanzo storico basato sull’esito di campagne di scavo a Policoro Bussentino (si tratta di Porta di Mare, che ho recensito a suo tempo). A corollario del suo progetto di ricerca nel Lucus Bormani a San Bartolomeo al Mare (IM) – il mio borgo natìo, per cui ne sono sempre stata doppiamente felice – ha messo su oltre a incontri pubblici con la cittadinanza, anche vere e proprie occasioni di rievocazione storica in ambito locale. E non è la prima volta che Pallecchi affronta in una monografia tematiche di comunicazione in ambito archeologico: si tratta di “Raccontare l’archeologia. Strategie e tecniche per la comunicazione dei risultati delle ricerche archeologiche” (all’Insegna del Giglio, 2017).
Proprio a questo tema, quello della comunicazione dei risultati delle ricerche archeologiche, Pallecchi dedica la seconda parte del volume, nel quale per l’appunto fa confluire le esperienze del Lucus Bormani insieme ad altre esperienze molto interessanti di “Comunicazione sul cantiere“. Non prende in considerazione in questa sede la comunicazione del cantiere archeologico sui social, e capisco il perché: perché nel caso di scavi universitari in concessione la comunicazione anche social è oggetto di accordo con il Ministero della cultura (nella sede specifica la Soprintendenza territoriale o il Parco archeologico di riferimento). E anche perché effettivamente, con le poche eccezioni di RomaTre Scava (Università di RomaTre) oppure di Ancient_Aquinum (UniSalento) che risalgono già a qualche anno fa (e la cui esperienza è stata pubblicata in Archeosocial), di Uomini e cose a Vignale e dell’Archeodromo di Poggibonsi, su facebook, fin dagli esordi, è solo dal 2022 che la comunicazione day-by-day dello scavo archeologico è stata sdoganata sui social. Il caso scuola è stato quello condotto dal Parco archeologico dell’Appia antica sullo scavo al Castrum Caetani, svoltosi proprio nel 2022. A seguire anche il Parco archeologico di Ostia antica ha seguito sia nel 2022 che nel 2023 le campagne di scavo del progetto Ostia Post Scriptum raccontando giorno dopo giorno l’evolversi e i nuovi sviluppi delle indagini. E poi c’è il principe degli account social, quello gestito per conto degli scavi di San Casciano dei Bagni, che lungo il 2022 e ancora adesso nel 2023, con una narrazione educata, istituzionale, che ha saputo mixare divulgazione con scene di cantiere senza indulgere al sensazionalismo e soprattutto riuscendo a gestire la botta di sovrapopolarità che ha subìto nel novembre 2022, rappresenta secondo me il punto più alto di comunicazione di una campagna di scavo sui social, riuscendo a districarsi tra necessità di informare senza rivelare ciò che ancora è non solo non pubblicato, ma ancora in fase di interpretazione. Ed è ovvio che la comunicazione social dello scavo di San Casciano dei Bagni è l’esito di un dialogo tra i tre attori in campo: la Soprintendenza, innanzitutto, l’Università degli Stranieri di Siena, concessionaria dello scavo, e chi da ultimo gestisce le informazioni e le traduce in post social. Infine, va citato il progetto di ricerca Appiantica39 è uno degli ultimi nati e unisce alla comunicazione sui social anche attività sul campo con la cittadinanza.
Ma torniamo al volume. Ho fatto questa digressione per sottolineare l’unico difetto di fondo, difetto non imputabile all’autrice: cioè quello di non potersi aggiornare di volta in volta in un mondo che invece è molto fluido; perché da quando è stato pubblicato si sono verificate – tra le altre – quelle esperienze che vi dicevo sopra, dalle quali si è visto l’enorme potenziale dei social (finalmente, aggiungerei) nel raccontare e tenere alta l’attenzione sull’avanzare quotidiano della ricerca, della pratica dello scavo. Per la mia esperienza il riscontro è positivo, e penso che anche negli altri casi sia altrettanto. Un’altra cosa, che nel 2022 ancora forse non era esplosa, ma che nel 2023 ha visto sicuramente aumentare contenuti in tal senso, è il mondo dei podcast. Esempi in Italia non mancano e se si vuole tenere il passo consiglio di iscriversi alla newsletter e di seguire il podcast L’orecchio di Dionisio di Chiara Boracchi.
Ma torniamo al volume, perché se è pur vero che leggerlo oggi, 29 dicembre 2023, è già superato – per alcune cose – per altre si pone come un punto fermo, importante, dal quale ripartire per capire quali sono le varie declinazioni della comunicazione dell’archeologia onsite e online. Ampio spazio – un intero capitolo – è dato al gaming e alle sue applicazioni pratiche in campo museale (territorio questo anch’esso in espansione); un capitolo è dedicato al web 2.0 e ai blog (e in questo le mando un grandissimo abbraccio virtuale), ma anche a iniziative di archeologia pubblica come l’Archeoracconto (e anche qui mega abbraccio virtuale… a proposito, a breve torniamo!).
Molto interessante la sezione sull’archeologia esperienziale. Espressione questa che mi ricorda un po’ quel turismo esperienziale con cui tanto ci si sciacqua la bocca in ambito turistico ultimamente, ma che poi non è altro che “coinvolgimento attivo nell’esperienza di visita”: che sia imparare a cucinare il pesto a Genova o a toccare con mano degli oggetti che riproducono reperti, magari vedendoli nel reale contesto di rinvenimento non fa differenza, dal punto di vista dell’esperienza. Oppure fare attività didattica in costume, trasformandosi, a beneficio di chi ne fruisce, nella persona – ormai personaggio – il cui corredo funebre, magari, è esposto nelle vetrine del museo in cui si svolge l’attività in questione.
Nel volume c’è tutta un’introduzione di carattere metodologico che affronta, a partire dal valore del patrimonio culturale, poi anche i metodi più tradizionali di comunicazione/divulgazione come la tv o le riviste di settore. Una lettura importante, perché mette a fuoco dei punti fermi a livello teorico, necessari per comprendere lo spirito del libro, degli ambiti e degli esempi che sono poi presentati nelle pagine successive e anche per tentare di aggiornare il concetto di comunicazione dell’archeologia: che, lo ricordiamo, non è solo social, non è solo la divulgazione in tv, non è solo la ricostruzione virtuale. Ma si fa comunicazione ogni volta che si traduce l’informazione archeologica, ogni volta che si fa un passaggio da chi detiene l’informazione a chi non la ha (ancora). Pertanto, esistono anche livelli diversi di comunicazione perché necessariamente una comunicazione pensata per i bambini avrà linguaggi e si avvarrà di strumenti diversi da quelli per un pubblico di studenti universitari di archeologia; ogni tipologia di pubblico che ci possa venire in mente necessita di linguaggi e strumenti ragionati ad hoc. Personalmente lo sto verificando, e lo verificherò molto presto a Ostia antica, con il progetto realizzato insieme a ScuoleMigranti pensato per gli studenti delle scuole di italiano per stranieri del territorio, frequentate da persone di minoranza etnica e linguistica, ciascuna con il proprio trascorso, la propria lingua, la propria religione e, soprattutto, la propria cultura.
La voce “Comunicazione dell’Archeologia” sul Dizionario di Archeologia di Francovich-Manacorda si data al 2000. La riedizione del 2017 vede quella voce sostanzialmente invariata. Forse è giunto il momento di aggiornare quella voce, visto che la comunicazione in ambito archeologico in 23 anni ne ha fatto di passi in avanti, e forse, anzi senz’altro, Ritessere e raccontare di Silvia Pallecchi può essere, anzi è, una buona base di partenza.







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