Archeologia sensazionalistica: impariamo a maneggiare con cura la comunicazione dell’archeologia

Nell’epoca della notizia spiattellata innanzitutto sui social, senza (ma non sempre) la mediazione dei media tradizionali, anche l’archeologia cerca di rendersi notiziabile, appetibile e, come sempre in questi casi, sconfina nella deriva del sensazionalismo.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi “grandi rinvenimenti” dati in pasto ai social e ai media tradizionali (tv, radio, carta stampata), prima di una corretta e ponderata – metodologicamente parlando – riflessione sull’interpretazione da dare proprio a quei rinvenimenti.

Mi si dirà: “ma come, proprio tu che ti occupi di comunicazione dell’archeologia ti lamenti se l’archeologia finisce in prima pagina?” Ebbene sì, mi lamento.

Mi lamento non perché finisce in prima pagina, ma per “come” ci finisce. Le 5 W del giornalismo sono sempre valide, ma manca una H importante: “How”, “come”. Che badate, è diverso da “Why”, “perché”. Il perché indica una causa, il come indica un processo. E incredibilmente non compare tra le 5 W del giornalismo.

E allora, come ci finisce una notizia di archeologia in prima pagina?

Ho individuato tre eventi scatenanti.

  1. la scoperta eclatante, talmente eclatante che viene subito spiegata e interpretata e data in pasto ai media (e ai social) senza però una verifica approfondita;
  2. la scoperta meno eclatante, ma venduta ai media (e ai social) come scoperta del secolo;
  3. la scoperta ancora meno eclatante, ma in un contesto di assoluto prestigio e notorietà internazionale, per cui la copertura mediatica è assicurata.

Alle tre “scoperte” di cui sopra va aggiunta una quarta tipologia di scoperta, che è quella che fu definita da Cairoli Fulvio Giuliani “Archeologia oggi: la fantasia al potere“: correva l’anno 2012 quando Giuliani pubblicava questa monografia, segno che tutto sommato l’uso di fare la “sparata” sensazionale per riportare alla ribalta l’archeologia, o certa archeologia, non è nata oggi. Non è nata neanche con i social. E’ nata, più o meno, con l’individuazione del “muro di Romolo” e con altre amenità archeologiche di quegli anni.

L’archeologia sensazionalistica non è solo un problema di comunicazione

L’archeologia sensazionalistica non è solo un problema di comunicazione. La comunicazione è la punta dell’iceberg, la fine – se vogliamo – del processo che conduce dalla ricerca all’interpretazione alla pubblicazione (intesa come “rendere pubblico”) l’esito della ricerca.

Rispetto a 20 anni fa (ma pure 10, ma pure 5) abbiamo fatto grandi passi nella direzione della comunicazione dell’archeologia, complice anche e soprattutto il grande sviluppo dei social e la presa di coscienza da parte delle istituzioni che è importante comunicare il proprio lavoro per farsi conoscere (e per richiedere, eventualmente, sponsorizzazioni).

Oggi siamo arrivati alla posizione prevalente opposta rispetto a quella di 20 anni fa. Siamo passati da un silenzio totale alla narrazione quotidiana. Questo è senz’altro positivo, ma l’insidia, anzi la seduzione e in certi casi l’ansia, di voler pubblicare la notiziona a tutti i costi ci ha messo davanti a notizie molto spesso pompate a uso e consumo della massa. E passatemi il termine “massa”.

Voglio introdurre un elemento di riflessione sul tema. Perché l’archeologia sensazionalistica fa presa sulla “massa” e perché a gridare all’allarme sono soltanto gli addetti ai lavori? Da qui l’ulteriore riflessione: a chi giova tutto ciò?

Io non offro soluzioni, pongo solo problematiche sul piatto. In ordine sparso, dato che io per prima sono estremamente disordinata.

Problematica numero 1. L’archeologia nel quotidiano, intesa come cantieri pubblici bloccati/rallentati e simili, è osteggiata. Ad essere osteggiata, in realtà, è soprattutto l’archeologia della tutela, vista come un pesante fardello, come un ingiusto piccone messo di traverso a chi – privato cittadino o azienda – vuole semplicemente progredire. E’ su quest’immagine dell’archeologia che dobbiamo lavorare, per far capire che non ci arroghiamo diritti che ledono i diritti altrui, ma che semplicemente agiamo nell’interesse della collettività andando a tutelare contesti archeologici (e paesaggistici, stante l’efficacia della Riforma Franceschini che ha accorpato le Soprintendenze).

Un grande passo in avanti in questo senso è stato fatto nel modificare la definizione da “Rischio archeologico” a “potenziale archeologico”. Una parola sola per esprimere sempre lo stesso concetto, ovvero la possibilità che vi siano contesti archeologici nell’area oggetto d’indagine, ma quale salto di significato si è fatto! Da rischio a potenziale ce ne corre: da un significato che nasconde un che di negativo si è passati a un significato positivo. Ma quello che si va a definire è sempre la stessa cosa.

Il secondo punto è come i media tradizionali, quindi non direttamente le soprintendenze/parchi/musei, comunicano le notizie/scoperte. In apertura dicevo che il comunicato stampa parte dall’istituzione. Quindi si spera che sia scientificamente corretto, rispecchiando così le intenzioni dell’istituto. Ma quando il comunicato stampa arriva nelle mani dei giornalisti ecco che allora le cose cambiano: c’è chi pubblica paro paro il comunicato stampa, e così non sbaglia; ma c’è chi ci ricama sopra, inventando dichiarazioni di direttori e quant’altro, o peggio ancora lavora sul titolo, creando quel sensazionalismo che attira il click del lettore, ma che di fatto non giova né alla notizia, né all’archeologia.

Sul tema del rapporto tra archeologia e uffici stampa è fondamentale leggere il contributo di Marta Coccoluto in Archeosocial 2.0 (a cura di Antonia Falcone). In Marta Coccoluto infatti si uniscono le due anime, dell’archeologa e della giornalista, per cui lei spiega con naturalezza come funzionano le dinamiche dall’interno, consentendo di farci un’idea di come il passaggio di notizie e la redazione di comunicati stampa può o non può funzionare.

Ho letto spesso articoli di testate giornalistiche che andavano a modificare – solitamente enfatizzando – notizie che a loro detta non bastavano da sole a farsi leggere.

L’ultimo esempio cui abbiamo assistito in questi giorni, eclatante perché ha fatto infuriare la comunità scientifica (ma al di fuori di essa chi se ne è accorto?) è stata la notizia “Scoperta l’agorà di Selinunte: è la più grande di tutte“. La notizia di partenza in realtà doveva essere “Sono ripresi i lavori di pulizia dell’agorà di Selinunte, la più grande di tutto il mondo antico“.

Lo so, sembra un messaggio da Apollo Pizio, che spostando la virgola cambia il significato. La verità è che da un messaggio di partenza “è stata riportata in luce (pulita, sostanzialmente, n.d.M.) l’agorà di Selinunte, la più grande di tutto il mondo antico” il titolo acchiappaclick (clickbaiting) è diventato: “Ritorna alla luce l’agorà di Selinunte: è la più grande al mondo”. Ripeto, le parole sono importanti, e pure la punteggiatura. E fanno la differenza tra una notizia e una notizia sensazionale.

Il terzo punto è la reazione del pubblico. Meglio, dei pubblici. Perché ogni notizia in ogni ambito ha i suoi pubblici di riferimento: il pubblico generalista, quello che si vuole raggiungere nell’ottica di creare interesse, e convertire in clienti (è il social media marketing, bellezza) e il pubblico degli addetti ai lavori, in genere scettico per natura (ci sarà sempre un archeologo più preparato di te su un determinato tema che non perderà occasione per fartelo notare), ma soprattutto conscio di ciò di cui si sta parlando. Tornando a Selinunte: ma ti pare che solo due giorni fa abbiamo scoperto che ha l’agorà più grande di qualunque altra città greca? Chi conosce un minimo la storia degli scavi di Selinunte è subito andato a rispolverare i lavori di Dieter Mertens dimostrando come questa straordinaria informazione fosse patrimonio acquisito dalla società scientifica da alcuni decenni. Gli altri (mi ci metto io) hanno storto il naso pensando che quel titolo a prescindere fosse un po’ troppo esagerato. Ma torno un attimo sui lavori di Mertens noti agli addetti ai lavori. Qui sta il punto. Noti solo agli addetti ai lavori. Ammesso e non concesso che questa notizia possa interessare il pubblico generalista (che spesso e volentieri non sa cosa sia un’agorà) in ogni caso non era mai uscita dalle pubblicazioni scientifiche, al limite (non lo so) è scritta su un pannello nell’area archeologica di Selinunte.

Allora torna la domanda. Che a questo punto si fa provocatoria. A chi giova?

A fronte di un pubblico generalista che plaude alla nuova straordinaria scoperta, perché per quel pubblico si tratta davvero di un’informazione nuova, si staglia uno sparuto drappello di esperti del settore/addetti ai lavori che condannano il sensazionalismo della notizia. Nella mia bolla di facebook sembra prevalere la visione che condanna, ma al di fuori della mia bolla il mondo funziona diversamente. Il mondo accoglie la notizia dell’agorà di Selinunte, e molte altre notizie, con entusiasmo (?) o forse indifferenza (?). La nicchia degli archeologi no, si incazza e/o rosica.

Sul tema consiglio la lettura dell’articolo di Stefano Monti per Artribune: Archeologia e clickbaiting: chi ci guadagna e chi ci rimette.

E a questo punto dico: visto che l’incazzatura fine a se stessa non serve a niente, vogliamo per favore elevare a sistema un discorso sul metodo che, partendo dalle fasi della ricerca e dell’interpretazione arrivi alla comunicazione cercando di ridimensionare il sensazionalismo?

Sto dicendo forse che bisogna intendere una stretta sulla comunicazione? No davvero, mi pongo piuttosto il problema di come questa comunicazione debba essere fatta, anche perché a fronte di alcune “sparate” sensazionalistiche, buona parte della comunicazione archeologica oggi viene fatta a tappeto, quotidianamente, con l’intenzione di informare, promuovere e valorizzare il patrimonio archeologico. Il 99% della comunicazione archeologica avviene così, grazie al lavoro che da circa 10 anni le istituzioni, chi prima chi dopo, stanno facendo, più o meno bene, con esiti più o meno soddisfacenti. Ma la tendenza è senz’altro positiva.

Torno quindi al punto di partenza. Fermo restando che al pubblico generalista non interessa delle nostre beghe tra chi ha fatto prima una scoperta o sulla confutazione di quella stessa scoperta, il problema dell’archeologia sensazionalistica va ricondotto a monte e non può essere ridotto soltanto a un problema di comunicazione. Assolutamente no: è un problema di metodo.

E’ di questi giorni la pubblicazione di “Rome, archéologie et histoire urbaine. Trente ans après l’Urbs” (dove Urbs fu un grandioso convegno di archeologia al quale intervennero i più importanti nomi dell’archeologia dell’epoca (1987) e ancora insuperati). E tra i vari contributi ce ne sono alcuni che vanno a riconsiderare gli ultimi 30 anni di archeologia nell’Urbe in chiave piuttosto critica. Uno è quello di Alessandro D’Alessio che nel suo contributo “Fonti archeologiche: dallo scavo al monumento” non risparmia critiche a certo modo di fare archeologia “trovando quel che si cerca” piuttosto che “cercando quel che si trova”.

Evidentemente il problema è a monte. Ed è un problema non di fuga di notizie o di pubblicazione presso i media in anteprima di scoperte la cui portata è ancora da ponderare. E’ un problema di opportunità, è soprattutto un problema di metodo. Perché se nessuno mette in discussione il metodo stratigrafico per lo scavo, bisogna però forse regolare il metodo sin dal momento dell’interpretazione dei dati e della conseguente pubblicazione, sia scientifica che al pubblico generalista. Creare linee guida forse? Non saprei, ma certo è evidente che la deriva sensazionalistica non fa bene alla disciplina. Non fa bene a nessuno, in effetti.

La chiave sta nel metodo. L’archeologia della fantasia, per citare nuovamente Giuliani, è sempre in agguato. E al netto di interpretazioni sbagliate, che ci possono stare, perché l’archeologia non è una scienza esatta, è importante l’onestà intellettuale con la quale si interpretano i dati e con la quale si trasmette la notizia al grande pubblico. Della cui intelligenza bisogna avere rispetto. Sempre.

Come al solito i miei sono pensieri in libertà, poco organizzati, ma che spero possano essere utili a contribuire al dibattito. Un dibattito che va alimentato, ripreso anzi, perché stiamo finalmente riuscendo a far diventare l’archeologia un tema popolare, o quanto meno vicino alla cittadinanza. Stiamo, da più parti, creando progetti di archeologia pubblica sul modello anglosassone. La strada è avviata. Cerchiamo di non buttarla in caciara solo per avere un like in più.

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