Archeologia del gesso: il museo della Rocca di Brisighella e la vena del gesso romagnola

Inserire un monumento nella narrazione del territorio e del suo rapporto millenario con l’uomo: ⇒ fatto!

È quanto avviene infatti all’interno del Museo L’Uomo e il Gesso della Rocca di Brisighella (RA): una maestosa opera di fortificazione posta a controllo del centro urbano e del territorio fin dal Basso Medioevo, oggi trasformata in museo di se stessa e, appunto, del territorio e del suo rapporto con l’uomo. Un rapporto basato principalmente sullo sfruttamento delle cave di gesso, il quale diventa veicolo di formazione di insediamenti nell’area fin dall’età romana.

La Rocca di Brisighella: il camminamento di ronda e le due torri

Il percorso espositivo

La scala a chiocciola all’interno di una delle torri

Il biglietto di 3 € consente l’accesso alla Rocca (una fortificazione medievale realizzata nel XIII secolo e successivamente ampliata nel XVI) attraverso la porta che si apre tra i suoi due torrioni. Questa immette in una corte centrale intorno alla quale si sviluppa su quattro lati il circuito delle mura. Nel varcare la soglia una voce fuoricampo ci immerge nella storia e nella funzione dell’edificio. Sono le “pietre parlanti”; la storia che ci raccontano, a pezzi, man mano che si procede nella scoperta dell’edificio, è fatta di guerre e di assedi, di battaglie per il controllo del territorio, ma anche di vita quotidiana nel basso medioevo all’interno della rocca militare.

Il percorso si snoda risalendo e ridiscendendo i due torrioni con una scala a chiocciola. Gli ambienti, più stretti nel torrione più antico, più ampi in quello più recente e imponente, ospitano il racconto. Il camminamento di ronda, lungo tutta la sommità delle mura, collega le due torri e consente una visione panoramica a 360° del territorio: la stessa che avevano le guardie all’epoca. Dobbiamo infatti sempre tener presente che quel panorama così suggestivo che noi fotografiamo e ammiriamo nel dettaglio, un tempo era guardato non certo per la sua bellezza, ma per poterlo controllare e difendere da attacchi nemici. E la Rocca di Brisighella fece gola, nel corso della sua storia, a molti, Venezia e Stato Pontificio in primis.

Il primo torrione, quello più antico, è dedicato alla storia del popolamento del territorio, conosciuta principalmente attraverso indagini archeologiche condotte in anni recenti. È infatti al 2005 che risale l’individuazione vicino al Rifugio Carné, nel cuore del Parco della Vena del Gesso Romagnola, di un piccolo insediamento di età romana: un edificio realizzato lievemente in pendio, con le fondazioni parte in legno e parte poggiate direttamente sul banco naturale di gesso, le pareti in intelaiatura di legno e mattoni in argilla cruda (piuttosto ricorrente nel Nord Italia anche in edifici meno modesti di questo), il tetto rivestito da tegole e coppi. Inizialmente interpretata come fattoria per il ricovero stagionale di una famiglia di pastori e del suo gregge, è ormai considerata un edificio da legare allo sfruttamento della vicina cava di gesso di Monte Mauro che smise di essere occupato alla metà del I secolo d.C.

La pannellistica racconta dapprima il ritrovamento, poi il perché dell’interpretazione fornendo dati interessanti relativi allo scavo: il crollo del tetto rinvenuto solo su un lato dell’edificio per via del pendio, il rinvenimento in un’area ristretta e ben delimitata del pavimento di tanti frammenti ceramici che ha consentito di ipotizzare la presenza di un mobile o un ripostiglio dove fossero sistemate le stoviglie utili alla vita quotidiana: contenitori per il cibo come ciotole e pentole (olle), bicchieri e piatti. Fuori dall’edificio si svolgevano le attività tipiche del tempo: una fuseruola che serviva per il telaio ci parla di attività femminili; sono stati rinvenuti alcuni attrezzi agricoli per un’agricoltura di sussistenza in un’area non propriamente agricola; un dado ci parla del tempo libero di chi occupava quest’edificio. Infine si segnala una moneta, datata al 22-23 d.C.

Salendo le scale a chiocciola per arrivare al livello successivo, facciamo un passo indietro nel tempo. Il ritrovamento del Rifugio Carné viene infatti contestualizzato in un discorso che guarda alla storia del popolamento della regione fin dall’età protostorica. Questa si caratterizza per una serie di insediamenti di altura, sia all’aperto che in grotta, lungo le vie di transito appenniniche. Le grotte in particolare, dall’Eneolitico all’età del Bronzo furono sfruttate come luoghi di sepoltura, come rifugi temporanei e come luoghi sacri. Una di queste grotte, la Tanaccia, è poco distante dal parco in cui si trova il Rifugio Carné ed è visitabile con visite guidate.

La Grott Tanaccia. Credits: Brisighella.org

In età romana l’area collinare, che non si prestava a insediamenti stabili (come pure l’edificio del Rifugio Carné lascia intravvedere), venne invece sfruttata per il prelievo del lapis specularis, ovvero il gesso, le cui vene affioranti caratterizzano il suolo del territorio. Gli insediamenti si svilupparono invece lungo la valle del fiume Lamone, presso il quale corre anche la via Faentina, che collegava Florentia (Firenze) con Faventia (Faenza). Lungo questo fertile fondovalle si svilupparono ville rustiche come quella rinvenuta e indagata archeologicamente in anni recenti a Brisighella: di essa si è individuata proprio la pars rustica, l’area produttiva destinata alle lavorazioni agricole: vasche e dolia per la conservazione di granaglie hanno fatto propendere per questa interpretazione.

Olle di età romana al museo di Brisighella

Nella torre della Rocca trovano posto pochi materiali archeologici: olle e pentole che ci parlano dei pochi insediamenti sparsi di età romana.

Il resto del percorso espositivo si sposta poi al Medioevo e alla vita all’interno della Rocca: la prigione, la cucina col camino e le pentole in ceramica, la camera da letto. Infine, il camminamento sotto le mura, dove la voce fuoricampo che accompagna lungo il percorso diventa una tumultuosa azione di guerra nella quale il visitatore viene proiettato.

Il vero valore del museo della Rocca è però, senz’altro, l’introduzione del tema delle cave di gesso, che sono il vero leit motiv della regione. Il parco naturale della vena del gesso romagnola, poco distante, immerso nel verde, non è altro che il luogo in cui in età romana veniva estratto, in numerose grotte e grotticelle, il lapis specularis.

Cave di gesso a Brisighella in età romana

Le cave di gesso, o lapis specularis, della vena del gesso romagnola sono sfruttate lungo tutto il corso dell’età romana. Numerose indagini archeologiche hanno portato alla conoscenza di un’attività estrattiva di cui, per l’Italia, ancora poco si conosceva.

Un affioramento di gesso nel parco della vena del gesso

Una cava importante è stata rinvenuta in anni recenti a Monte Mauro, nelle vicinanze di Brisighella: nella Grotta della Lucerna, infatti, sono stati individuati i segni di una frequentazione e dello sfruttamento della vena di gesso per tutta l’età imperiale, fino alla tarda antichità. Il gesso veniva sfruttato in sostituzione del vetro proprio per la sua trasparenza: la pietra infatti tende a scagliarsi in lamelle sottili e trasparenti, per cui ben si prestava ad essere impiegata in finestre e più in generale nell’edilizia; da Pompei ed Ercolano provengono numerose testimonianze del suo impiego proprio nelle finestre: nelle Terme del Foro e nella Casa di P. Proculo a Pompei, e nel vestibolo della Palestra di Ercolano.

Pompei, lastre dalla domus di Paquio Proculo (tratta da Atti Convegno Lapis Specularis, fig. 3 p. 174)

Plinio il Vecchio, la nostra grandissima fonte in materia di conoscenze tecniche, artistiche e scientifiche dell’antichità, scrive nella sua Naturalis Historia, libro XXXVI, che in Italia cave di gesso si trovavano, oltre che in Sicilia, anche vicino Bologna. Il riferimento che fa è proprio alle cave di Monte Mauro presso Brisighella. A questo link si trovano le panoramiche interattive delle cave e grotte individuate e indagate archeologicamente nel Parco della Vena del Gesso Romagnola.

La lucerna che ha dato il nome all’omonima grotta/cava di gesso. Credits: lapisspecularis.it

La Grotta della Lucerna è stata chiamata così per via dei numerosi frammenti di lucerne (più una integra) rinvenuti al suo interno: esse servivano a illuminare l’attività estrattiva dei minatori, spesso anche molto giovani per potersi infilare nei cunicoli. L’effetto amplificatore del gesso trasparente doveva illuminare parecchio gli ambienti sotterranei. Alcune nicchie dove le lucerne dovevano essere poste, gli alloggiamenti per i pali di legno per sorreggere scale, impalcature e camminamenti, ancoraggi per carrucole e funi, scivoli e gradini ci raccontano poi com’era organizzata la cava al suo interno e la vita di cantiere. Tra i materiali, che mostrano una continuità di vita per tutta l’età romana, è stata rinvenuta una moneta di Antonino Pio.

Monte Mauro, parete di gesso scalpellata in antico (immagine tratta da Atti Convegno Lapis Specularis, fig. 4, p. 111)

Una mostra realizzata nel 2013 ha raccontato benissimo questo capitolo di archeologia così poco noto eppure interessante di questa terra. Essa fu l’occasione per la prima volta, insieme ad un convegno e al sito web del progetto che ne è nato, a cura di Chiara Guarnieri, di portare anche in Italia l’attenzione su quest’attività estrattiva di cui sono ben noti i segni archeologici in Spagna, dove cave sono state scavate presso Cuenca e in altre località della Hispania Citerior. Non solo, ma sono note anche cave di lapis specularis in Tunisia e in Sicilia, nella Grotta Inferno di Cattolica Eraclea (AG) .

Per saperne di più rimando agli atti del convegno che ricordavo sopra: Il vetro di pietra. Il Lapis specularis dall’estrazione all’uso, a cura di C. Guarnieri, Faenza 2015. Gli atti sono interamente scaricabili qui: http://www.lapisspecularis.it/atti.html (da cui ho tratto alcune delle immagini di questo post; l’immagine di copertina è tratta da lapisspecularis.it)

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