Ha inaugurato da pochissimi giorni, il 30 marzo 2017, la mostra Spartaco, schiavi e padroni a Roma al Museo dell’Ara Pacis.
L’intento della mostra è, nonostante il titolo, non parlare del personaggio Spartaco, del periodo storico e sociale che lo vide protagonista, del mondo dei gladiatori al quale era stato condannato o della guerra che egli scatenò contro Roma e che fu repressa nel sangue. No. A tutto ciò è dedicato appena un pannello, poche citazioni su un video e in filodiffusione. Ciò che interessa alla mostra è raccontare la schiavitù a Roma, tracciando degli interessantissimi (e pesantissimi) confronti col presente.
Chi era Spartaco
In effetti sarebbe difficile dedicare una mostra ad un personaggio di cui non abbiamo né il ritratto, né una statua, né conosciamo la tomba. Spartaco era Trace di nascita, e dapprima combatté nelle fila dell’esercito romano. Poi fu condannato per un qualche motivo ignoto alla gladiatura. I gladiatori erano a tutti gli effetti schiavi; siamo nella prima metà del I secolo a.C.: i giochi gladiatorii sono ancora poco diffusi nel mondo romano, ma Spartaco, il quale aveva corporatura possente ed era dotato di una forza sovrumana, fu costretto a combattere nell’anfiteatro di Capua, nelle armi del gladiatore murmillo. Qui si ribellò, convincendo 70 suoi compagni gladiatori e fuggì. La sua prese i connotati di una rivolta servile contro Roma perché nella sua fuga e rivolta si fece portavoce dei tanti schiavi che lavoravano nei grandi latifondi dei ricchi possidenti campani e che fuggirono e si unirono al suo esercito. Spartaco tenne in scacco Roma per un certo tempo, anche perché il Senato aveva preso sottogamba la rivolta. Quando finalmente si decise a reagire, però, gli mandò contro 10 legioni guidate da Crasso. Per gli schiavi non ci fu più niente da fare, la rivolta venne repressa nel sangue e il corpo di Spartaco scomparve, ma si dice che cadde “come un comandante romano”.
Quella di Spartaco non era stata la prima rivolta servile: in Sicilia ciò era successo già due volte, nel 135 a.C. e nel 102 a.C. In entrambi i casi la ribellione fu repressa nel sangue; nella seconda i 1000 superstiti, fatti prigionieri, furono condannati alla damnatio ad bestias, a combattere cioè contro le belve nel Circo, ma si uccisero prima tra di loro.
Diventare schiavi a Roma

Dai 6 ai 10 milioni di schiavi su una popolazione di 50/60 milioni di persone non è cosa da poco. In effetti la società romana basava se stessa proprio su una forte presenza della popolazione di condizione servile. Inizialmente, nell’età repubblicana, si ha la schiavitù per debiti: chi non riesce a saldare il debito con il suo creditore ne diventa schiavo fino a ripagare il tutto: il bel dipinto di Camillo Miola, Plauto Mugnaio, del 1864, racconta proprio questa pratica: narra lo scrittore Aulo Gellio, infatti, che il commediografo Plauto divenne schiavo per debiti di un mugnaio e che fu costretto a girare la macina. Nel dipinto di Miola Plauto sta invece intrattenendo i presenti in un ambiente che riprende la Casa del Forno di Pompei, scoperta proprio in quegli anni.
Per la maggior parte gli schiavi però erano prigionieri di guerra: un vero e proprio bottino di uomini che venivano catturati e venduti, quindi indirizzati a svolgere differenti funzioni a seconda della richiesta degli acquirenti. I prigionieri fatti nel corso delle grandi guerre che caratterizzano la storia dell’ascesa di Roma nel Mediterraneo, nel corso della Repubblica, furono inseriti nelle domus e nelle ville, nelle città e nei grandi latifondi, nelle miniere e negli opifici, andando a costituire una forza lavoro enorme, su cui si basa proprio l’economia romana: un’economia schiavistica, com’è stata definita.
Gli schiavi sono esseri umani (Servi sunt, immo homines ripete fino alla nausea in latino, italiano, inglese una voce fuori campo per tutto il corso della visita che cita frasi di Seneca, Giovenale e altri), perciò come tali si possono unire. Ecco, la nascita di uno schiavo da due genitori schiavi era vista come un incremento del capitale del dominus. Con un termine molto forte ma altrettanto efficace si parla addirittura in mostra di “allevamento” di schiavi, mentre la voce fuori campo racconta di quel dominus che metteva incinte le sue schiave per “produrre” altri schiavi: storie aberranti che ci vengono riportate proprio dalle fonti antiche.
Essere schiavi a Roma

Gli schiavi non erano tutti uguali, ovviamente. La mostra ripercorre nelle sue sezioni alcuni dei campi nei quali gli schiavi erano impiegati, concentrandosi in particolare su alcuni punti. Molto spazio è dedicato, ad esempio, alla prostituzione, con i gioielli in oro della fanciulla, morta a Moregine vicino Pompei, tra cui un bracciale a serpente nel quale è scritto dominus ancillae suae (il padrone alla sua schiava); è dedicato spazio anche all’impiego di schiavi nelle figlinae, le officine in cui si producevano laterizi: i bolli presentati in mostra riportano il nome degli schiavi che a loro volta sovrintendevano al lavoro degli operai, schiavi anch’essi. Spazio è dedicato agli schiavi che lavoravano nei latifondi e che si dedicavano ai lavori agricoli: il gruppo scultoreo della bollitura del maiale della metà del I secolo d.C. è molto significativo.
E se gli schiavi tentavano di fuggire? Lo schiavo fuggiasco era marchiato. Indossava poi una piastrina o un collare in bronzo su cui era scritta sempre la formula Tene me ne fugiam (se mi trovi trattienimi affinché io non fugga) cui seguiva il nome del padrone. Un po’ come le piastrine al collo dei cani, per capirci. Tra i collari degli schiavi, è dato risalto a quello di uno schiavo di Sesto Pompeo che morì nel corso della battaglia navale di Nauloco, nel 36 a.C. nel corso della Guerra Civile tra Cesare e Pompeo. Sul suo collare era incisa la formula tene me e il nome, inequivocabile, del padrone al quale era legato il suo destino.

In mostra è molto coinvolgente e immersiva la sezione dedicata al lavoro servile in miniera. In un ambiente estremamente buio e opprimente, con il rumore assordante della terra (pare da un momento all’altro di restare intrappolati nel crollo di un cunicolo) risalta, tra gli altri oggetti, una gerla in legno di quercia, spalmata di pece, che aveva trasportato i metalli estratti da una miniera a Huelva, in Spagna.
Ogni schiavo poteva sperare di diventare, un giorno, liberto. Il padrone con la pratica della manumissio liberava lo schiavo che a quel punto diventava un cittadino libero a tutti gli effetti, anche se manteneva un forte legame col patrono (al punto che sulle iscrizioni il nome del liberto è sempre seguito dal nome del suo patrono con la lettera L che sta per Libertus). La prospettiva di diventare liberti era ciò che faceva sì che gli schiavi non cercassero la ribellione. Inoltre non bisogna pensare che tutti gli schiavi fossero trattati male, torturati o puniti ingiustamente: spesso con i padroni si instaurava un bel rapporto di fiducia e di confidenza che sfociava, poi, nella manumissio da parte del dominus e nella lealtà a vita da parte del liberto.
Schiavi di ieri e di oggi
Fin dalla prima riga del primo pannello introduttivo si capisce che il tono della mostra non è quello imparziale della documentazione archeologica, ma che c’è un certo intento morale che si srotola lungo le sale. Ciò si fa evidente con la prima fotografia che incontriamo. Sì esatto, una fotografia, che ritrae prigionieri di guerra in Vietnam, neanche troppi decenni fa. Una foto di reportage che fece a suo tempo il giro del mondo, denunciando le condizioni dei prigionieri di guerra inermi, legati per il collo e per le mani, trascinati lungo le risaie: il raffronto con i prigionieri di guerra futuri schiavi di Roma salta all’occhio lampante e viene da pensare “Non è cambiato niente”. Altre foto si incontrano nel percorso di visita. Tra le più intense, e recenti, quella di una prostituta bambina in Thailandia, nella sezione dedicata alla prostituzione, e quella del fotografo americano Lewis Hine che negli anni ’20 del Novecento condusse un reportage dedicato al lavoro minorile negli Stati Uniti. Nella sua foto c’è un bambino piccino in un campo di cotone, nella sezione dedicata agli schiavi bambini, spesso nati nella casa del padrone. Infine, la foto storica, degli anni ’50 di minatori in Sicilia che lavorano nudi per il gran caldo nei cunicoli, è il confronto con il mondo moderno che ci offre la sezione dedicata al lavoro in miniera.

La riflessione che sorge alla fine della mostra è che nonostante 2000 anni di storia e di consapevolezza dei diritti umani ci separino (questi ultimi in realtà negli ultimi 60 anni), vi sono luoghi del mondo in cui sotto i nostri occhi disattenti, si vivono quotidiane situazioni di schiavitù. Non sono più chiamati schiavi, forse, ma è evidente che lo sono. Le immagini sono un pugno nello stomaco, verrebbe voglia di voltarsi dall’altra parte, eppure è inutile che chiudiamo gli occhi: questa realtà continua ad esistere.
Se l’archeologia e la conoscenza del passato hanno un ruolo sociale, forse questo è stato colto dalla mostra. Ed è il suo punto a favore.
Per il resto, intitolare a Spartaco una mostra che di Spartaco parla in appena un pannello è a mio avviso fuorviante. È come quelle mostre tipo “Van Gogh e gli Impressionisti” nelle quali c’è una sola opera di Van Gogh e tutte le altre di autori poco noti: attirano pubblico, ma non soddisfano le aspettative. Infine, due note pratiche negative: il costo troppo alto del biglietto Ara Pacis + mostra (17 € per l’intero è decisamente eccessivo se ci caliamo nella parte della persona che vuole visitare più mostre e più musei in un suo soggiorno a Roma, ma anche dell’appassionato: sono mostre per tutto il pubblico, non per un’élite) e il divieto di fare foto, che ormai invece dovrebbe essere in qualche modo superato (tra l’altro molte opere esposte provengono da musei statali, per i quali il divieto non vige più).
Il Museo dell’Ara Pacis fa parte del Circuito dei Musei in Comune di Roma. La mostra sarà aperta fino al 17 settembre 2017.
Gran bella recensione… conto di andarci…
"Mi piace""Mi piace"
Grazie 🙂
"Mi piace""Mi piace"