Valorizzazione, norme e prassi. Tra il dire e il fare c’è di mezzo…

Si è svolto oggi a Roma un incontro sul tema della valorizzazione dei BBCC all’interno di un ciclo organizzato dal Dottorato in Storia e Conservazione dell’Oggetto d’arte e d’architettura (nella fattispecie dal mio collega di dottorato Mirco Modolo). L’incontro di oggi aveva per tema la valorizzazione nell’ordinamento giuridico tra norme e prassi. A parlare sono intervenuti M.Cammelli e P. Petraroia, a tirare le conclusioni, come sempre, il prof. Manacorda. Come per lo scorso incontro sulla valorizzazione, per il quale avevo preparato un breve intervento, anche questa volta ho fatto la mia parte.

Ecco il testo delle mie riflessioni sull’aspetto della valorizzazione da questo nuovo punto di vista che, da ignorante quale sono in materia di diritto, ho reinterpretato sotto un’altra forma: per prepararmi all’incontro, infatti ho voluto leggere gli atti del Primo colloquio sulla Valorizzazione, svoltosi a ottobre 2011 e organizzato dalla Direzione Generale per la Valorizzazione del MiBAC. Quanto segue sono le riflessioni scaturite dalla lettura di quel testo:

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Il volume è interessante perché accoglie lo stato dell’arte, al 2011, in materia di valorizzazione del patrimonio culturale, punto di partenza da cui prende le mosse l’attività della Direzione Generale per la Valorizzazione. Innanzitutto, la prima cosa che emerge, interessante a mio parere, è che un organo del ministero per i beni e le attività culturali non parla mai di beni culturali ma di patrimonio culturale, segno che è stata finalmente recepita – e infatti vi si fa spesso riferimento nei vari interventi che si susseguono – almeno nella teoria, una nuova definizione di patrimonio che non è costituita solo da beni materiali, ma anche da beni immateriali e dal territorio con il quale sono in relazione. Parlare di valorizzazione del patrimonio culturale diventa allora un tema molto ampio, dal punto di vista concettuale e teorico, che si deve però inevitabilmente scontrare con la quotidianità delle pratiche messe in atto in materia di valorizzazione. E qui il problema è quello della valorizzazione che è materia di legislazione condivisa, con tutto ciò che comporta in tema di dialogo tra le differenti istituzioni, l’amministrazione centrale nei suoi bracci periferici e gli enti territoriali, dialogo che spesso si risolve in un contrasto o in un nulla di fatto delle attività di gestione integrata del territorio.

Ritorno sul concetto di patrimonio nella sua accezione più larga così come finalmente è stata recepita, in seguito anche alla Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale del 2005 che è stata ratificata recentemente dall’Italia, perché interpreta il patrimonio culturale come fonte utile allo sviluppo umano. Così, il dibattito che si è sviluppato e che è tuttora in corso sulle strategie di valorizzazione integrata del patrimonio culturale vede attribuire ad esso un ruolo sempre più significativo nel quadro di modelli di sviluppo fondati sulle identità locali e sulla valorizzazione delle risorse dei territori. Il patrimonio culturale così delineato, come insieme di beni materiali, immateriali (intesi questi come saperi e creatività che creano una cultura materiale), contribuisce allo sviluppo sostenibile non solo producendo impatti economici, ma comportando benessere per la popolazione. Lo slogan, se così lo si può definire, della recente manifestazione di Florens, svoltasi a Firenze a novembre 2012 con lo scopo di coniugare bbcc ed economia, era per l’appunto “Cultura, qualità della vita”: e nell’ampio concetto di patrimonio culturale che anche in quell’occasione emergeva veniva inserita anche l’industria, in particolare della moda, in quanto frutto di creatività e saper fare che caratterizzano il made in Italy come un prodotto prettamente culturale.

Tornando agli atti, si nota che, anche se si parla di patrimonio culturale in senso ampio, molta parte del discorso sulla valorizzazione viene ricondotta ai musei, o comunque ai singoli luoghi della cultura statali, che rimangono comunque la priorità del ministero. In particolare per quanto riguarda i musei, la direzione generale ha fatto avviare una serie di indagini di studio e di monitoraggio, nonché un recente sondaggio al pubblico dalla riuscita piuttosto discutibile, per capire in che direzione muoversi per la valorizzazione. È importante sottolineare che non emerge in modo chiaro tra gli stessi preposti alla valorizzazione, quale sia il significato operativo da attribuire a tale parola, visto che molti pensano ancora che valorizzare un museo si limiti ai famigerati servizi aggiuntivi, quando in realtà l’accoglienza è ben altra e maggiore cosa: è la capacità di comunicare al pubblico il museo. È fondamentale a tal proposito lo studio condotto da Ludovico Solima, che traccia un quadro del pubblico dei musei nel quale emerge chiaramente l’importanza di una comunicazione dentro il museo, attraverso i necessari supporti, una comunicazione che sia una narrazione, un racconto, e non abbia invece un approccio enciclopedico specifico sul singolo oggetto e slegato dal contesto. È cambiato l’interesse del pubblico nei confronti dell’oggetto nel museo, interessa il contesto, una storia, più che la descrizione e peggio ancora il nozionismo (che però è duro a morire).

L’incontro col pubblico, poi, avviene ormai per la maggior parte via internet, dunque è questa via che va sviluppata ed è invece in questa via che i musei, archeologici soprattutto, sono carenti. Ma la domanda che mi pongo io, che lavoro in un museo archeologico nazionale, è: avuti i risultati di questa indagine, la Direzione Generale per la Valorizzazione che l’ha promossa, cosa fa nella pratica per far sì che le strutture museali statali si adeguino ai risultati di tale indagine? Mi sembra che manchi da parte dell’organo centrale un potere di controllo e di indirizzo concreto sull’operato delle sedi periferiche, per cui alla fine ringraziamo il professor Solima del suo lavoro, ma tutto resta come prima, o comunque lasciato alla singola discrezione di azione dei singoli luoghi della cultura.

Un’ulteriore nota che emerge, sempre leggendo gli atti, è che il Ministero, nei suoi bracci periferici, dunque le soprintendenze, non è in grado se non in rarissimi casi, di condurre progetti di valorizzazione territoriale: non per niente elementi presenti sul territorio come i musei diffusi, o le reti di musei, non sono mai statali, ma gestiti da enti locali. Raramente, poi, il progetto di valorizzazione di un sito archeologico è realizzato in modo da guardare anche all’esterno del recinto, ovvero al territorio che lo ospita: un recente convegno organizzato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna incentrato su progetti di valorizzazione da essa attuati mostrava in effetti delle buone pratiche che però sono poche isole felici in cui la valorizzazione è intesa non solo come nuovi pannelli all’interno dell’area archeologica, ma come costruzione di un sistema territoriale capace di far stringere un legame tra l’area archeologica e la popolazione che vi vive intorno, gettando i presupposti per lo sviluppo di un’identità locale. Accanto alle poche buone pratiche vi sono realtà dove invece, e sono la maggior parte, le soprintendenze non dialogano né con gli enti locali né con le altre soprintendenze insistenti sul territorio. Allora forse la Direzione Generale per la Valorizzazione, oltre a fare campagne pubblicitarie colorate o a concentrarsi sui social network, come fa ultimamente, dovrebbe piuttosto porsi come elemento di mediazione e di controllo nei progetti di valorizzazione territoriale integrata, che sono ormai l’esito naturale di quella nuova presa di coscienza che fa parlare di patrimonio culturale e non più soltanto di beni culturali.

Fin qui il testo del mio intervento che, ci tengo a sottolineare, riporta i contenuti  in soldoni degli atti senza sbilanciarsi troppo in considerazioni o critiche. Voglio solo sottolineare che quel convegno si poneva come punto di partenza per successive azioni, per il successivo lavoro della Direzione Generale della Valorizzazione e degli organismi preposti alla valorizzazione sul territorio coordinati dalla Direzione Generale. Il convegno si svolse nel 2011, gli atti sono stati pubblicati a fine 2012, siamo nel 2013 inoltrato. Non ho la competenza né le informazioni necessarie per stabilire se tra il dire e il fare ci sia stato  e ci sia di mezzo “e il”…

Mi piace poi soffermarmi su due concetti espressi da Daniele Manacorda nel suo intervento conclusivo: innanzitutto egli auspica che davvero nella pratica dei fatti si superi la distinzione in “beni archeologici”, “beni storicoartistici”, “beni architettonici” per arrivare ad un’unica concezione del Patrimonio che superi le specializzazioni delle soprintendenze e di conseguenze delle competenze troppo settorializzate che ormai stanno imbalsamando l’operatività sui beni culturali. Ma è il secondo concetto che esprime che mi ha fatto sorridere, vista l’attualità di ciò che sto seguendo con particolare attenzione in questi giorni: “la valorizzazione non è una funzione tecnica, ma culturale, ed è sociale, non pubblica. La valorizzazione è una funzione sociale che investe ciascuno di noi come membro della società, come privato cittadino”. E il pensiero corre, con un certo compiacimento, al “caso” delle invasioni digitali che si stanno spandendo a macchia d’olio, esponenzialmente giorno dopo giorno e che sono, come dicevo nello scorso post, proprio l’applicazione pratica di una società che si riappropria di luoghi che le appartengono e che le valorizza nel momento stesso in cui pone su di essi il proprio interesse riconoscendone il valore. E con questa benedizione accademica (e che benedizione accademica!) lascio la parola a voi, mentre io mi rivolgo ad una nuova avventura archeobloggogica di cui spero di potervi raccontare a breve, anzi brevissimo!

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