Con grande piacere ospito un testo (non nasce come post per un blog) di un mio collega di dottorato a RomaTre, Mirco Modolo, il quale sta curando una serie di incontri sul tema della Valorizzazione, al quale si collega il mio precedente post. Il dibattito che proprio quel post ha suscitato su questo blog mi fa capire quanto la tematica della valorizzazione legata alla comunicazione sia molto sentita non solo dagli addetti ai lavori della mia generazione, ma anche all’esterno, dai diretti interessati dalla comunicazione, ovvero i visitatori. Ascoltare anzi le loro esigenze sarebbe il primo punto da cui partire per organizzare un adeguato progetto di comunicazione. Come dicevo nello scorso post, ed è anche il pensiero di Mirco che qui vi riporto sotto forma di guestpost, la valorizzazione di un museo e della sua collezione si attua nel momento in cui avviene un’adeguata trasmissione del messaggio, ovvero nel momento in cui il visitatore/pubblico comprende il valore dell’oggetto/collezione che ha davanti. Sta quindi a noi impegnarci a vedere nella comunicazione il principale, se non l’unico obiettivo finale del nostro fare ricerca da un lato, e dell’esercizio della conservazione dall’altro. Inutile conservare, se nessuno ne capisce il senso.
Il bene culturale non è e non è mai stato un valore assoluto, e sarebbe inutile sfoggio di retorica sostenerlo. Può apparire di per sé un’affermazione dal tono provocatorio, ma così non è. La percezione del valore infatti muta a seconda dei parametri di valore che ogni società porta con sé nel tempo. Lo testimonia la fortuna discontinua di artisti come Caravaggio, o il ruolo subalterno delle memorie medievali rispetto ad un classicismo considerato come modello ideale nell’ideologia fascista. L’eredità culturale in altre parole necessita di essere continuamente e criticamente rimotivata, e più tale valore giungerà ad essere condiviso, meglio saremo in grado di garantire la sopravvivenza stessa del patrimonio culturale e la trasmissione alle future generazioni, in quanto siamo portati inevitabilmente a conservare ciò che oggi consideriamo degno.
Ma la percezione del valore di ciò che consideriamo un bene identitario e l’apprezzamento che ne deriva sono possibili davvero solo se se riusciamo a trasmetterne il senso, cioè a comunicarlo in modo adeguato per essere inteso. Solo così la società si accorgerà che quel bene è davvero tale e che dunque vale la pena di conservarlo. La comunicazione è il pilastro di qualsiasi fruizione dei beni culturali, ed è veicolo per la trasmissione dei contenuti culturali elaborati della ricerca scientifica, anche universitaria.
Musei e siti archeologici hanno prima di tutto una funzione civile, che è quella di comunicare dei significati per il tramite di significanti che siano resi comprensibili ai visitatori. Può sembrare cosa ovvia e banale nella teoria, come testimoniano gli oceani di inchiostro che si sono riversati sull’argomento. Ma paradossalmente è cosa molto meno ovvia nella prassi, se pensiamo, per fare solo un solo esempio eclatante, all’imbarazzante mutismo di fronte al turismo internazionale di un’area centralissima a Roma come il Foro e il Palatino.
Vorrei citare a questo proposito l’impegno nella comunicazione culturale di Francesco Antinucci, che non a caso non è né archeologo né storico dell’arte, ma esperto di psicologia cognitiva, disciplina specializzata nello studio di quei meccanismi che rendono possibile e facilitano la comunicazione, anche nei musei. Sono due le tendenze che generano un vero e proprio ‘cortocircuito comunicativo’, per usare le parole di Antinucci. Esse investono sia i contenuti che la forma nella trasmissione di un qualunque messaggio: spesso infatti, pur di fronte ad un contenuto culturale di tutto rispetto, colpisce l’indifferenza riservata al lessico dei pannelli informativi scritti in ‘storiadellartichese’, un linguaggio che sembra riflettere, nello sconcerto dei visitatori comuni, solo lo snobismo intellettuale dei curatori dell’allestimento, più che una genuina volontà di fare comprendere alcunché. Oppure all’opposto si preferisce ricorrere ad effetti speciali e allestimenti spettacolari, come nel caso del Museo Egizio di Torino, spesso come alibi per mascherare la povertà di contenuti culturali di un museo per attirare turisti, più che per educarli. Non stupiamoci allora se la gente preferisce ai musei le mostre temporanee, che trovano la loro carta vincente in quella narratività che spesso latita nei musei. E’ sull’efficacia di comunicazione che dobbiamo investire, prima ancora che sul marketing (pure importante) o sul mero calcolo dei biglietti venduti, che di per sé non postulano affatto il raggiungimento delle finalità civili e culturali proprie di un museo. Ma per investire sulla comunicazione è necessario puntare sulla formazione di personale specializzato nella comunicazione che deve essere presente in ogni museo, che sappia esattamente ciò che deve fare e come farlo. Personale che dovrà avere familiarità sia con il contenuto culturale sia con le forme tecnologiche con cui si dispiega la comunicazione di tali contenuti.
Sono figure professionali nuove, che per esistere dovrebbero essere istituzionalizzate in ogni museo e capaci di instaurare un dialogo costruttivo con la direzione dei musei. La formazione si intreccia dunque necessariamente con un sistema normativo e istituzionale capace di accogliere tali figure. Ed questa è la sfida che dovrà affrontare nell’immediato, e non in un improbabile futuro, la politica dei beni culturali.
Mirco Modolo
Ed ora ripasso la parola a voi…
E’ un interessante guest-post che nella parte centrale aderisce perfettamente ad una delle mie considerazioni al precedente post (http://generazionediarcheologi.myblog.it/archive/2013/03/06/il-museo-muto.html#comments).
Perché usare tecnicismi in un pannello informativo che né informa e né spiega? A cosa serve una spettacolare ricostruzione 3D se non è supportata da un adeguato sistema comunicativo?
In ogni caso, torna centrale la questione della formazione e delle figure professionali (già ripreso da Giuliano e da altri) su cui sarebbe opportuno riflettere, ma sarebbe altrettanto opportuno mettere in pratica questo necessario cambiamento istituzionale, accademico e normativo.
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Mi soffermo solo su un aspetto che viene affrontato in questo articolo, e sul pericolo insito nel rischiare di non tenerne conto: il bene ha un valore per chi lo riconosce come tale. Dunque se Tizio non ha gli strumenti per comprendere che quel dato bene è importante, per lui quel bene non riveste alcun interesse, dunque se quel bene andrà perduto a lui non farà né caldo né freddo. Consideriamo le conseguenze pericolosissime di un fatto del genere.
La formazione delle figure professionali di cui si parla va di pari passo col cambio di mentalità che sarebbe necessario. Un cambio di mentalità, innanzitutto: il resto vien da sé. Di questo cambio di mentalità se ne parla anche in ambito accademico, e per voce di alcuni personaggi decisamente significativi. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il” (dotta citazione di Elio e le storie tese, mi si perdonerà!) ed è in questo grosso scoglio da superare, o mare da attraversare, che vanno a naufragare tutte le belle parole e i fiumi di inchiostro che si spendono ormai da anni…
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Concordo di nuovo con tutto, però avrei un “caveat”.
Come professionisti dobbiamo sicuramente imparare a comunicare in maniera comprensibile, accessibile ed interessante per tutti (e qui mi piace moltissimo l’osservazione di Mirco sulla narratività delle mostre temporanee in confronto a quella -latitante-dei musei). Aggiungerei che ci sarebbe bisogno di capire meglio anche gli altri valori (ad es. identitari) ascritti dal ‘grande pubblico’ ai bbcc, nonostante possano risultare più distanti dai nostri ‘parametri’ professionali. In altre parole, credo che parte rilevante di una migliore formazione nella comunicazione dei bbcc, sia una migliore conoscenza del pubblico, e della sua relazione con la nostra disciplina.
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