Chi meglio di Piero Pruneti, direttore della Rivista di divulgazione Archeologia Viva, potrebbe mediare la sessione pomeridiana? E Pruneti lancia subito la bomba: quei vecchi scavi in Piazza della Signoria, fatti ormai 30 anni fa, e mai pubblicati, che gridano vendetta al cospetto di dio (e colgono in pochi la battuta noir “gli scavi non pubblicati muoiono con chi li ha scavati”, riferendosi alla recente scomparsa di Giuliano De Marinis che all’epoca aveva seguito gli scavi).
Il tema, L’archeologia comunica con il pubblico, è probabilmente il tema che mi interessa maggiormente di tutto il congresso, a partire dal primo intervento, quello di Chiara Bonacchi, la quale fa una vera e propria lezione teorica sul concetto di comunicazione: una lezione che se si facesse all’università in un insegnamento di comunicazione dell’archeologia ci risparmierebbe la fatica e gli errori propri degli autodidatti e formerebbe professionisti che vedano nella comunicazione una risorsa, un effetto imprescindibile della ricerca e non un peso o peggio ancora una cosa inutile, da deferire ad altre figure professionali. Importante, aggiunge Chiara Bonacchi in conclusione del suo intervento, capire innanzitutto il pubblico dell’archeologia – secondo un modello di lavoro già applicato in ambito di Public Archaeology in UK – e capire i benefici culturali, sociali ed economici che la comunicazione può produrre.
Paolo Liverani parla dell’AIAC, Associazione Internazionale di Archeologia Classica, e soprattutto dello strumento dei Fasti online, che sostituiscono ormai da qualche anno la pubblicazione cartacea, ma costosa, lenta e macchinosa, dei Fasti Archeologici. Liverani insiste sul valore pubblico dei dati – e finalmente, come viene fatto notare su twitter da @Lad_unifg, account del Laboratorio di Archeologia Digitale dell’Università di Foggia, si parla di opendata – potendo contare su un database che conta quasi 3000 siti archeologici in Italia.
Laura Longo dei Musei Civici Fiorentini parla del progetto di musealizzazione degli scavi di Palazzo Vecchio. Soprattutto, introduce il concetto di un percorso museale basato sul cloud museum; tutta l’area del centro storico di Firenze potrà condurre i visitatori che usano smartphone e tablet in un dialogo contino indoor-outdoor: il museo si connette alla città mostrando al visitatore cosa può incontrare visitandola; la città va verso il museo e suggerisce a cittadini e turisti nuovi percorsi museali. Un esempio per tutti? Riscoprire la Firenze che non c’è più, quella di età romana, per esempio, camminando per strada! Firenze applica il concetto di smartcity ai Beni Culturali, e in questo è decisamente innovativa. Il 4 novembre nell’ambito di Florens2012 il cloud museum verrà presentato ufficialmente al pubblico.
Maria Letizia Gualandi parla del Mappa Project, il primo archivio open data di informazione archeologica con la redazione di una carta predittiva del potenziale archeologico relativa al territorio di Pisa. La ricerca, dice la Gualandi, si alimenta con lo scambio di informazioni e la possibilità di accedere alle informazioni. La conoscenza del territorio è fondamentale e degli scavi pregressi anche, ma vi sono difficoltà pratiche nell’accedere agli archivi della Soprintendenza, vuoi perché la documentazione è andata perduta o non è mai stata raccolta, vuoi per la cronica (o comoda…) carenza di personale. Ci viene illustrato MOD, acronimo di Mappa Open Data: al momento conta 13 interventi archeologici dei quali è presente tutta la documentazione archeologica che diventa così a disposizione di tutti. Viene salutata con piacere la promulgazione del Decreto Legge Crescita 2.0/Agenda Digitale, che sancisce il concetto di open data anche per la Pubblica Amministrazione: e cosa sono i Beni Archeologici, se non beni pubblici?
Marinella Pasquinucci ci fa nuotare nel mare dei musei dedicati all’archeologia subacquea e della navigazione, facendoci notare come proprio questa branca di studi eserciti una forte attrazione sul pubblico, attratto in prima battuta dall’idea del tesoro sommerso, e secondariamente dalla possibilità di ricostruzioni di antiche navi da trasporto. Negli anni recenti è cresciuto il numero di mostre e musei dedicati all’argomento, nonché di rievocazioni, come il film sul viaggio di Rutilio Namaziano e la manifestazione itinerante che ha fatto seguito e che ha visto l’interesse e la partecipazione di abbondante pubblico. E se nel Mediterraneo l’interesse è alto, in Norvegia non è da meno, con le ricostruzioni di navi vichinghe e navigazioni su navi vichinghe ricostruite lungo antiche rotte di navigazione: qui le navi vichinghe esercitano un forte valore identitario sulla popolazione locale.
Tocca a Valerio Massimo Manfredi portare il suo contributo. Una comunicazione robusta e corretta, tuona, si impone perché questo momento di crisi sta falcidiando gli studi umanistici, ritenuti elitari e privi di ricaduta economica. Accenna alla fantarcheologia, ovvero ad un uso della comunicazione archeologica tra virgolette, ovvero fatta da chi archeologo non è e puntata alla spettacolarizzazione e al mistero a tutti i costi, ma molto seducente. Accenna poi alla difficoltà di comunicazione che si incontra nei musei, dove didascalie troppo difficili (quando non assenti: fate un giro al Museo Archeologico di Firenze, per esempio…) creano nel pubblico un senso di inadeguatezza che sfocia nel disagio e nella repulsione verso il prossimo museo. Infine parla di un caso che l’ha visto coinvolto in prima persona: il recupero del tempio G di Selinunte: alla sua proposta di reinnalzare con un’anastilosi parziale ma ben curata scientificamente e staticamente la parte recuperabile della peristasi del tempio si è opposta una levata di scudi clamorosa che in nome dello status quo ha preferito lasciar perdere piuttosto che lanciarsi in un’operazione coraggiosa e che avrebbe una portata internazionale in termini sia dell’interesse suscitato che di pubblico. Ed è stato interessante verificare a tal proposito, su Twitter, nel corso del livetwitting che si è tenuto durante il Congresso, che la proposta di Manfredi non è considerata così male: “il punto non è ricostruire o no, il punto è sempre il COME…serve sempre un “compromesso ragionevole e intelligente” scrive @AlexCarabia e @Lad_Fg scrive “si può anche fare, una buona anastilosi reale fa meno danni di una virtuale sbagliata (ma fa più notizia)”.
Passa la parola a Nicoletta Volante, che, cambiando genere, parla del rapporto tra archeologia pubblica e preistoria, o meglio delle esperienze di archeologia della preistoria applicata al pubblico. La cosa non è facile, dato che gli scavi preistorici non restituiscono emergenze monumentali, e se in Europa già da 50 anni almeno vengono realizzati parchi archeologici in cui sono ricostruiti villaggi preistorici, in Italia siamo ancora molto indietro. A maggior ragione bisogna formare, lamenta la Volante, archeologi che sappiano comunicare. Anche se, aggiungiamo noi dal pubblico, questa necessità serve per tutte le archeologie… L’archeologia sperimentale si configura come un ottimo strumento di comunicazione col pubblico, in base al principio del learning by doing. Accenna infine al progetto “Vietato non toccare”, che consiste nella creazione di un laboratorio all’Accessibilità universale a Buonconvento (SI) che lavora all’abbattimento delle barriere architettoniche e alla progettazione di percorsi di visita accessibili.
Ultimo intervento della sessione è quello di Marco Valenti che illustra l’attività del LIAAM (Laboratorio di Informatica Applicata all’Archeologia Medievale attraverso progetti per smartphone e tablet e di realtà aumentata. Si tratta di Wikitude, sistema leggero di valorizzazione con percorsi; Qr-Code, basato su sistemi di riconoscimento che permettono l’acquisizione di dati aggiuntivi sul particolare monumento corredato di pannello (dotato di Qr-Code da leggere); questo sistema è stato applicato, con successo, anche ai monumenti del FAI; Aurasma, che si basa sul riconoscimento di immagini cui corrispondono contenuti aggiuntivi; ma il progetto più spettacolare è il percorso di realtà aumentata con l’utilizzo di markers che permettono di visualizzare, sul marker che si tiene in mano, un edificio intero in 3D perfettamente riprodotto… Tutti questi lavori sono creati in seno a Archeotipo, uno spin-off dell’Università di Siena.
Si chiude qui la sessione sulla comunicazione dell’archeologia. Tocca a Daniele Manacorda tirare le fila della Giornata e dare nuovi spunti di riflessione. Questi non mancano di certo, anzi. E toccano tutti i concetti base sfiorati in questa giornata. Innanzitutto l’identità, che non è un dato storico da perimetrare, ma un processo, perché il passato non è statico, ma in movimento. Nell’antinomia tra passato e presente, continua Manacorda, l’archeologia corre il rischio di riconoscersi nel passato, mentre è la contemporaneità che regola e vuole le restituzioni di senso che l’archeologia deve fornire. Per chi lavora l’archeologo? Il rapporto tra archeologia e società si è fatto più intenso perché si riconosce un valore strategico ai Beni Culturali. L’uso pubblico della Storia ci stimola a coniugare il rigore delle indagini con il piacere del racconto. E la narrazione non investe solo il modo di comunicare, ma anche il modo di interpretare. Anche nei musei si dovrebbero fare livelli diversi di comunicazione: o si capisce che il pubblico, anzi i pubblici sono il nostro primo alleato e interlocutore o siamo destinati a scomparire, avverte Manacorda. Il futuro dell’archeologia dipende dagli archeologi. E con queste parole lapidarie ci rivela la parola chiave di tutto il suo discorso: innovare. Intanto per quanto riguarda la comunicazione, perché un’attenzione mirata ad essa cambia il metodo di fare ricerca. Nella filiera dell’archeologia, costituita da ricerca-tutela-valorizzazione, bisogna porre al centro della tutela il paesaggio, che contiene tutte le tracce stratificate del nostro passato. Di fatto si impone di innovare, ma non ribaltare, il sistema della tutela. Innovare è la parola chiave, la parola d’ordine di questo momento dell’archeologia: innovare modi e approcci, innovare la formazione dei singoli archeologi, innovare la sensibilità nel rapportarsi al passato, innovare il rapporto con le istituzioni e con la società, dialogare con essa, innovare è condividere conoscenza ed esperienze, sia tra archeologi che con il pubblico.
Le parole di Daniele Manacorda, qui indecorosamente riassunte, entusiasmano la platea. @Lad_Fg su twitter commenta, interpretando il sentimento popolare, “c’è più comunicazione e immaginazione nelle parole di Manacorda che in tanti progetti di “ricostruzione” archeologica”. E si chiude qui la prima giornata di Congresso.