Le parole conclusive di Flick traghettano direttamente alla I Sessione della mattinata, il cui tema è Archeologia e identità culturale. Apre Guido Vannini, mediatore di questa prima tavola rotonda, o talk show, ribadendo che questo Congresso è un punto di partenza, non di arrivo, nel corso del quale verranno esposte le buone pratiche già attive, i buoni progetti già in corso, ma anche le problematiche che emergono nel momento in cui la ricerca archeologica si deve rapportare con realtà diversificate e non sempre di facile gestione. Sicuramente l’Archeologia Pubblica è uno strumento in grado di restituire un terreno comune per le comunità locali di confronto civile e di mutuo riconoscimento. All’archeologia Pubblica si può riferire ciò che diceva Benedetto Croce a proposito della Storia: se è autentica, di qualunque epoca sia, è sempre contemporanea. E con questa dotta citazione, Vannini dà il via alle comunicazioni dei congressisti.
Prende la parola Serge Noiret, che parla di un ambito disciplinare diverso dall’archeologia pubblica, ma ad esso in qualche misura complementare, se non altro perché gli obiettivi, e probabilmente anche i metodi, sono gli stessi: la Public History, che nasce ad Oxford negli anni ’70 dalla presa di coscienza che la Storia deve dialogare con il presente, con le comunità. Negli USA la Public History è una disciplina che, rispondendo all’esigenza dell’incontro con la contemporaneità, sviluppa nuove professionalità al di fuori dell’Università.
Khairieh ‘Amr ci porta ad Amman, al Jordan Museum, che vede nei visitatori degli ospiti, ai quali dunque si vuole offrire il meglio, e per i quali si è pensata un’attività che si svolge non tanto in museo, quanto all’aperto; è il museo che va incontro ai visitatori, non viceversa. Questo avviene attraverso l’organizzazione di laboratori e di programmi educativi per bambini e giovani.
Angela Corolla ci racconta invece come un personaggio storico possa assumere un valore identitario a tal punto da condizionare totalmente la vita di una città. È il caso di Arechi II a Salerno, la cui fortuna è emersa nel momento in cui, a seguito di scavi archeologici condotti nel centro storico, area popolare con sacche di marginalità sociale, è venuto in luce uno spaccato della città che dall’età romana passava poi ad epoca longobarda. Il centro storico si è trasformato in centro vitale, e non solo per quanto riguarda il recupero archeologico del centro, attraverso visite all’area di San Pietro a Corte. Protagonista assoluto di questo orgoglio cittadino è Arechi II, vero personaggio identitario, tanto che il valore identitario della città medievale investe la città attuale e la sua immagine.
Passa la parola poi a Carlo Lippolis, che ritorna in Medio Oriente, per la precisione in Iraq, dove l’archeologia è stata strumentalizzata a fini politici in passato, e ne paga ora le conseguenze, con quello che viene chiamato “Negative Heritage”, ovvero patrimonio negativo, o perché ha acquisito per la popolazione un valore negativo, o perché è stato distrutto o depredato. Il caso di Babilonia è emblematico: assurta a civiltà simbolo dell’identità nazionale nel regime di Saddam Hussein ora è invece addirittura attraversata da un oleodotto, mentre sono troppo frequenti e incontrollabili gli scavi clandestini che vanno ad alimentare il mercato mondiale del traffico illecito di antichità. L’archeologia nel Medio Oriente si trova ad avere a che fare con un attore instabile, che è la difficile situazione sociopolitica di questa delicata area geografica.
Si ritorna in Italia, per la precisione in Sardegna, con Lidia Decandia, che ci racconta il progetto La strada che parla: un vecchio tratto ferroviario dismesso in Gallura che attraversa un territorio apparentemente vuoto, ma che invece nasconde molteplici che possono essere raccontati. E il racconto lo può fare solo chi ha sempre vissuto lì, attraverso i propri ricordi, le memorie. Il lavoro, condotto con Studio Azzurro, ha portato a realizzare nelle vecchie stazioni della ferrovia un archivio digitale con le memorie della popolazione locale. Una mostra ha poi restituito alla popolazione le conoscenze collettive. La popolazione gioca dunque il duplice ruolo di attore fondamentale, ma anche e soprattutto recettore finale di questo progetto della conoscenza.
Hamlet Petrosyan ci porta a Tigranakert, città ellenistica che sorge nell’attuale Nagorno Karabak, repubblica che non è riconosciuta a livello internazionale. Si pone dunque il problema dell’archeologia e del suo rapporto con la politica in situazioni di particolare crisi come questo del Nagorno Karabak. Tigranakert assume il valore identitario per uno stato che in realtà non esiste, e per questo, per il filo doppio con cui ricerca archeologica, riscoperta delle proprie radici e politica sono legate, la ricerca stessa ne risente in termini di cooperazione anche nei confronti della popolazione stessa.
Emerge, da questa prima sessione, che l’archeologia, in questa sua accezione pubblica in particolare (che poi l’archeologia è pubblica di per sé, ma questa è un’altra storia…), e la politica sono fortemente intrecciate. Quella dell’archeologia pubblica è una strada in salita nella quale la progettualità è imprescindibile, così come la ricerca. Progettualità è una parola ricorrente, oggi, e che tornerà anche nei prossimi interventi. Una parola chiave da avere sempre a mente.