Archeologi sottoterra. Sottoterra è il morale, sottoterra sono i diritti degli archeologi quando si tratta di lavorare su un cantiere d’emergenza, sottoterra i compensi per le prestazioni d’opera, sottoterra le possibilità di vedere riconosciuta la loro professionalità a livello lavorativo. Sottoterra, ancora, se si pensa alla condizione delle donne archeologo, che si rtrovano ad un certo punto della loro vita a dover scegliere tra avere un figlio, e perdere quel giro di lavori in cui con fatica sono entrate o continuare a passare le giornate, le stagioni, gli anni, sui cantieri. Perché è inutile che ci sciacquiamo la bocca con la storia delle quote rosa: i diritti delle lavoratrici femminili non sono assolutamente tutelati, a maggior ragione nei contesti lavorativi che presentano molti lati oscuri, com’è quello dell’archeoologia d’emergenza.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’Italia ogni anno sforna dalle università un discreto numero di laureati in archeologia, pronti a buttarsi nel mondo del lavoro. Di questi, una già ridotta percentuale decide di avventurarsi nel mondo delle cooperative, accettando di spaccarsi la schiena sui cantieri per pochi euro l’ora: del resto è questo lo sbocco professionale più diretto, e ben ne venga l’esistenza! Di questi, molti entro i 30 anni si rendono conto che non è vita saltare da un cantiere all’altro senza nessuna sicurezza che tra un mese starai ancora lavorando: perché quando termina lo scavo termina anche il contratto di collaborazione o di prestazione occasionale in virtù del quale sei pagato. Per i pochi che sono rimasti a coltivare il loro sogno di giovinezza (perché parliamoci chiaro: uno fa l’archeologo da cantiere per passione, non certo perché è il modo più facile per far quattrini) le difficoltà si vedono giorno dopo giorno e nascono principalmente da un fatto: lo scavo d’emergenza sorge laddove in un cantiere edile pubblico o privato, o per lavori pubblici, si incappa in un’area già sottoposta a vincolo archeologico oppure si va a battere il muso contro un qualche resto antico. I lavori si interrompono, interviene la soprintendenza archeologica che impone alla ditta edile di pagare le indagini archeologiche di accertamento, dopodiché, se i resti non saranno così importanti da dover prevedere un cambiamento nel progetto dei lavori, essi potranno procedere. Interviene allora l’archeologo, che però si trova costretto a lavorare velocemente, con ritmi da cantiere di muratori, ma con una paga decisamente minore, e con il fiato sul collo della ditta pagante, che non ha certo voglia di farsi prendere in giro e di perdere tempo per ‘sti due sassi che sono venuti fuori.
Da qualche anno a questa parte, l’Associazione Nazionale Archeologi si batte per veder riconosciuti i diritti di quella che è a tutti gli effetti una categoria di lavoratori. Da anni si batte, senza risultato al momento, perché sia riconosciuto un albo professionale degli archeologi. Al momento ancora niente da fare, ma a volte basta anche solo parlare, farsi sentire, per suscitare quanto meno un interesse, un dialogo, un’opinione. Così l’indagine pubblicata da l’Espresso e firmata da Roberta Carlini risulta la denuncia di un sistema che molti tra i lettori non conoscono e l’approdo sulle pagine di una testata importante a tiratura nazionale di un argomento che anche se riguarda solo una piccola categoria di lavoratori (peraltro giovani) di fatto apre su una prospettiva più ampia, quella del nostro patrimonio culturale, perennemente in pericolo, e sui tagli alla cultura. Si fa riferimento anche all’ultimo concorso, quello bandito nel 2008 per 397 posti da custode (sul quale mi sono già dilungata altre volte) e per pochissimi posti da archeologo. Di tutti gli archeologi che hanno tentato il concorso, com’è ovvio, solo la minima percentuale prevista ha vinto ed ha preso servizio l’anno scorso. Ma c’è tutta una riga di idonei che aspetta di entrare in servizio, nonostante i tagli alle assunzioni che vanno contro il concorso stesso, e nonostante vada in pensione un buon numero di archeologi-ispettori di soprintendenza che al momento rimane senza sostituzione. Cosa succede allora? Meno ispettori sul territorio, meno tutela del patrimonio già conosciuto e di quello ancora da individuare. E’ tutto collegato, c’è poco da fare.
Concludo ringraziando il cielo per aver vinto il concorso da custode e per essere entrata in servizio a maggio dell’anno scorso. Sì, mi lamento, non è il lavoro della mia vita, non mi dà la soddisfazione che mi dava spaccarmi la schiena in cantiere. Ma io sono tra quelle che a 30 anni avrebbe dovuto scegliere tra farmi una famiglia e avere dei figli, oppure continuare a sperare di ricevere un incarico appena esaurito quello precedente. Rileggendo le pagine dell’inchiesta mi sono rivista qualche tempo fa, mi sono guardata ora, e non ho dubbi. Indiana Jones non esiste, e la vocazione dell’archeologo da cantiere si va a scontrare con le esigenze materiali e fondamentali della vita di tutti i giorni: mangiare, pagare le bollette, potersi permettere di pagare un affitto (perché con la tua situazione economica chi te lo concede un mutuo?).
Speriamo che le cose cambino. Posso solo dire: in bocca al lupo, ragazzi.
Complimenti per l’articolo. Capisco l’amarezza ma che vuoi farci se in Italia la cultura è allo sbando?
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Questo articolo è scritto molto bene ed espone perfettamente il problema.
Sono uno di questi archelogi, uno di coloro che per passione si abitua per forza di cose a rari stipendi, frutto di collaborazioni di vario genere con enti pubblici e ditte di scavo. Bellissimo per chi si accontenta e non ha programmi a lungo termine, ma chi vuole farsi una famiglia? Un mutuo? Quasi impossibile…chissà se arriverò anche io tra qualche anno a dover scegliere, nell’impossibilità di ottenere entrambe le cose, a cosa rinunciare?
Ogni tanto scrivo anche io qualcosa di inerente a questo argomento, chissà se un po’ alla volta la sensibilità aumenta nei confronti di questi poveri archeologi che “scopettano quattro sassi” come si suol dire…
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