Archeologia Virtuale: la metodologia prima del software

Si sta svolgendo, oggi 5 aprile e domani 6 aprile 2011 presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme il Seminario di Archeologia Virtuale: la Metodologia prima del software, momento di incontro tra archeologi impegnati in prima linea in ambito universitario e negli enti di ricerca (totalmente assenti le soprintendenze, ma del resto non sono quelle le sedi preposte alla ricerca, quanto piuttosto alla tutela) su progetti di ricerca archeologica svariati per tipologia, risultati e obbiettivi, che impiegano le tecnologie più avanzate per la realizzazione sia di banche dati sempre più complete che di rilievi sempre più precisi, in vista di una ricostruzione virtuale che unisca all’esattezza dell’informazione scientifica e archeologica la sua capacità di essere fruibile da parte del pubblico nella sua accezione più ampia. È per questo che ho voluto prendervi parte, oltre che per il fatto che sono totalmente ignorante in materia di tecnologie applicate all’archeologia (a malapena smanetto – e male – su autocad e lo stesso dicasi di photoshop), ma soprattutto perché mi interessa l’aspetto della comunicazione del risultato, che di fatto dovrebbe essere alla base di ogni progetto di ricerca archeologica. L’impressione invece è, almeno giunti a metà dei lavori, che la comunicazione, quindi l’elaborazione di un prodotto pensato per la fruizione, sia in molti casi solo un complemento accessorio. D’accordo, non è questa la sede per parlare di comunicazione, qui si parla di progetti di ricerca, di applicazioni pratiche di tecnologie nuove (soprattutto per chi come me di alcune di esse non ha proprio sentito parlare), di gettare le basi per poter parlare di una metodologia valida caso per caso. Siamo, è vero, ancora in una fase sperimentale, e non si tratta qui di elaborare un metodo universale com’è il metodo stratigrafico per lo scavo, per fare un esempio, ma come giustamente si faceva notare oggi, l’importante è sapere cosa si cerca e cosa si vuole ottenere. L’archeologo ha sempre delle domande: qual è la tecnologia che mi risponde?

Il problema dell’utilizzo delle tecnologie – uso il termine generico per parlare di tutti i software che concorrono a realizzare dati digitali, dalla fotogrammetria al 3D – è che sono per molti ma non per tutti. Il problema ha cominciato ad emergere già oggi, e penso verrà sviluppato domani, e non è secondario, perché se il futuro dell’archeologia è tecnologico, allora in molti sono decisamente indietro da questo punto di vista. Oppure in pochi sono pionieri, almeno in Italia. Due sono i motivi per cui ancora in pochi si avvalgono delle tecnologie: innanzitutto i costi, perché sì, esistono parecchi software open-source, ma i programmi tradizionali, più consolidati e per i quali eventualmente esistono dei manuali o dei corsi (parlo per me, ovviamente) costano, e molto. Oppure, se sono a costo zero i software, lo stesso non si può dire delle apparecchiature: perché una fotocamera di buon livello o una stazione totale non si scaricano gratuitamente dal web. L’altro motivo è lo scarso spazio lasciato in università all’utilizzo delle nuove tecnologie. Così si creano delle oasi felici – Siena, per esempio – mentre altri atenei – Genova, sempre per esempio – stanno a guardare. Oppure – sempre Genova per esempio – non è il dipartimento di archeologia che si occupa di tecnologie applicate ai Beni Culturali. Motivo? Non ci sono docenti in grado di farlo e gli studenti non vengono messi in condizioni di richiedere invece corsi di questo tipo, né di cercarli altrove, o di essere interessati a farlo. Ricordo con affetto, ma con un brivido, il corso di Autocad che feci anni fa all’università: era la prima, pionieristica edizione e noi 15 studenti avevamo a disposizione appena un computer su cui a turno andavamo a tracciare polilinee. Chi ha voluto approfondire l’argomento l’ha fatto al di fuori di quel corso, specializzandosi poi nel rilievo con stazione totale e oltre. Gli altri, che all’epoca non ne hanno compreso l’importanza, sono rimasti con una semplice infarinatura di base. Ma ho divagato. Quello che volevo dire è che questo contrasto tra università che utilizzano le nuove tecnologie con laboratori attrezzati e università che non lo fanno alla lunga porterà ad un divario sempre più vasto tra la presentazione dei risultati secondo il metodo dell’archeologia virtuale (chiamiamo le cose col loro nome) e quello dell’archeologia tradizionale. Non vorrei che ad un certo punto, troppo presto, si decidesse che l’archeologia tradizionale è insufficiente e che assolutamente sono necessarie le applicazioni di archeologia virtuale sempre e comunque. È questo il rischio che temo. E parlo di rischio perché una cieca fiducia nella tecnologia rischia di far perdere di vista il lavoro che c’è alla base di tutto, e cioè la domanda di ricostruzione storica. L’archeologia virtuale è il mezzo, non il fine.

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