Come non detto. E sono felice di poterlo affermare. La seconda giornata del Seminario di Archeologia Virtuale: la metodologia prima del software ha affrontato i temi e le problematiche che ho rilevato ieri. Sono emerse le mie stesse perplessità, che avevo segnalato qui, prima tra tutte la centralità della ricostruzione storica alla base di ogni progetto di archeologia virtuale e in secondo luogo la comunicazione della scoperta quale presupposto e non mero complemento accessorio delle applicazioni di archeologia virtuale. Si è inoltre amaramente registrato il fatto che sia per l’archeologia virtuale che per la comunicazione archeologica sia riservato ben poco spazio nelle università italiane e che proprio l’archeologia virtuale è per sua natura la più vicina a comprendere le problematiche della comunicazione archeologica, soprattutto perché prima di spendere tempo, energie e denaro in una ricostruzione virtuale occorre sapere bene per quale scopo essa è realizzata, a chi si rivolge e di quali mezzi si avvale.
Infine, posso ritenermi soddisfatta di ciò che ho ascoltato, di ciò che, diciamo pure, ho appreso in questi due giorni. Perché continuerò a non saper usare nessuno dei programmi supersofisticati presentati al seminario, ma almeno so che esistono e già questo mi pare abbastanza, soprattutto se quando sarò grande mi passerà qualche possibilità di un buon progetto per le mani e vorrò avvalermi di qualcuna di queste tecnologie per approfondire lo studio e per avere un bel – oltre che buon – risultato finale, da poter proporre al pubblico. A mio parere, vale in questo campo lo stesso discorso che si fa per l’archeometria: l’archeologo, quello che l’università ha formato come tale, conosce le potenzialità degli esami scientifici approfonditi e vi ricorre secondo ciò di cui ha bisogno. Non è l’archeologo, ma il tecnico, che fa le analisi minero-petrografiche su una sezione sottile. Anche se uno dei convenuti, il prof D’Andrea dell’università di Napoli, ha fatto un efficace confronto tra i medici che in sala operatoria devono saper utilizzare strumentazioni sofisticate mentre fino a 50 anni fa andavano avanti col bisturi e poco altro, mentre l’archeologo – intendendo una figura generica – non evolve le sue competenze, non alza, per così dire, la testa dallo strato. Confronto efficace, senz’altro provocatorio, e che sicuramente deve far riflettere.
È giusto, è importante che l’apertura verso le nuove tecnologie entri nella testa di tutti gli archeologi, dagli Accademici agli strutturati nella compagine ministeriale, ma non si può pretendere, a mio parere, che tutti i futuri archeologi imparino ad utilizzare software di ricostruzione virtuale, 3D, fotogrammetria e quant’altro. Questo starà piuttosto alla buona volontà e all’interesse di ognuno, come del resto già avviene, sperando però, questo sì, che sia data più pubblicità al valore scientifico dell’archeologia virtuale in modo che se ne parli sempre di più e che circoli più informazione tra gli addetti ai lavori.
Infine, mi sia concesso farlo, un grande BRAVO e un enorme GRAZIE a Simone Gianolio, preparatissimo organizzatore dell’evento: si è presentato come un dottorando. Beh, sono una dottoranda anch’io, ma non sono degna di legargli le scarpe, e non solo perché non so usare nessuno dei programmi che lui utilizza con la stessa facilità con cui io gioco a Farmville su Facebook, ma perché si è rivelato un capace moderatore, preparato su più fronti, in grado di orientare gli argomenti e la discussione e di colloquiare con le figure professionali e professioniste che si sono alternate al microfono in questi due giorni.