Voglio riporare una frase importante di Andrea Carandini, tratta da “Roma. Il primo giorno” (Economica Laterza 2009, p. 7). In essa è contenuta al tempo stesso una definizione e una dichiarazione di intenti di quale è il mestiere e il modo di operare dell’archeologo. Questa dichiarazione è tanto più importante in quanto pubblicata in un volume destinato al grande pubblico degli appassionati di storia antica e, magari, non solo.
“Io sono un archeologo, cioè uno storico che si avvale prima di tutto delle cose fatte dall’uomo. Sono un narratore di tipo particolare, che prende le mosse dagli oggetti, ma che nell’opera di ricostruzione del passato si avvale poi di ogni genere di fonti, comprese quelle letterarie. La ricostruzione storica, infatti, non può che essere a più voci, tutte ugualmente significative; ma l’archeologo parte da costruzioni e cose. Non sono certo un portatore di verità assolute – sempre irraggiungibili – ma pongo problemi e avanzo soluzioni, cioè ipotesi più o meno probabili, i cui risultati sono provvisori, esito dello sforzo di sintesi che oggi sono in grado di fare.”
L’archeologia, è bene che lo sappiamo, è una traduzione del passato: il passato ci lascia il suo linguaggio, fatto di documenti, manufatti ed eventi. Sta a noi tradurli nel nostro linguaggio, interpretarli e capirli, ma la nostra ricostruzione, la nostra traduzione, non sarà mai del tutto letterale, ma sarà la più verosimile possibile. Il passato è complesso, impossibile individuarne tutte le sfaccettature con esattezza scientifica. Ma l’approccio archeologico alla storia sicuramente aiuta.