Qui non parlerò di archeologia, ma di antropologia, piuttosto. Ed è una storia di commozione personale e familiare. Perché il Museo Etnografico Sardo di Nuoro mi ha messo in contatto con i miei bisnonni più di quanto non possa farlo un nuraghe. In questo post antropologico-sentimentale vi spiego perché.
Il Museo Etnografico Sardo di Nuoro
Raggiungere Nuoro non è così facile. La strada che conduce fino a questa città di altura nell’interno della Sardegna occidentale lascia l’Orientale Sarda (così la chiamava mia nonna) per inerpicarsi su e su fino al poggio sul quale sorge la città. Una posizione panoramica non indifferente, devo ammetterlo.

A Nuoro si trova il Museo Etnografico Sardo, conosciuto anche come Museo del Costume.
Le sue attrazioni principali sono, secondo me, le maschere dei Mamuthones, i personaggi vestiti di pelli nere, col volto coperto da una maschera e con la schiena che risuona di campanacci. Ma molti altri aspetti – e neanche troppo distanti da noi temporalmente – della Sardegna popolare sono esposti nel museo: gli abiti sontuosi delle nozze, dal nord al sud della Sardegna, i gioielli splendidi ed elaborati in oro e corallo, il pane delle grandi occasioni religiose. Pian piano si dipana davanti ai nostri occhi una regione ricchissima, un patrimonio incredibile di ricordi e tradizioni che non vanno assolutamente perse. Anche se, inevitabilmente, tante processioni, tanti balli, tante occasioni di festa sono venute meno. Tutte nell’arco degli ultimi 100 anni.
Storia della mia bisnonna
La mia bisnonna, Francesca Enne, nacque nel piccolo paese di Lei nel 1891. Suo marito Eugenio era di qualche anno più vecchio. Già le circostanze dell’innamoramento furono particolari: le storie della mia famiglia narrano che in occasione di una particolare festa le donne in età da marito che avessero incontrato un uomo dal nome X, avrebbero poi sposato un uomo che portava proprio quel nome! Per spiegarmi meglio: non avrebbero sposato proprio quell’uomo, ma avrebbero incontrato prima o poi un uomo con quel nome.
Mia bisnonna in quella festa di paese incontrò un uomo che si chiamava Eugenio. Una tragedia. Perché si fosse chiamato Gavino, Giuseppe, Antonio, o un qualunque altro nome comune sarebbe andata bene, ma Eugenio non era un nome particolarmente diffuso in Sardegna.

Invece accadde che poi quell’Eugenio della profezia si manifestò, e mia nonna effettivamente convolò a giuste nozze. Il matrimonio riuscì bene: a cavallo degli anni ’20 del Novecento ebbero 7 figli, due dei quali morti in tenerissima età, le altre 5 tutte gloriose donne, la più piccola delle quali, nel 1926, mia nonna Fausta. Tutte venute in Liguria alla fine della guerra. Ma questa è un’altra storia.
Non ho mai saputo in che anno esatto si sposarono i miei bisnonni. Non mi ero mai neanche posta il problema del loro matrimonio, della festa e dell’abito da sposa. So per certo che all’epoca, in un contesto rurale come poteva essere quello del paesino di Lei o della cittadina di Macomer (che aveva la stazione del treno che fu bombardata durante la II Guerra Mondiale proprio quando due sposini stavano partendo per il loro povero viaggio di nozze), sicuramente non esisteva il fotografo che potesse scattare una foto ai giovani sposi nel giorno del loro matrimonio o, se esisteva (e all’epoca esisteva di sicuro), i giovani sposi non potevano permettersi un lusso simile. O magari se lo potevano permettere, ma chissà in quanti frammenti è andata la lastra di vetro alla gelatina d’argento che fu impressa in quel momento. Fatto sta che nelle mie foto di famiglia non ho mai visto le immagini del matrimonio della mia bisnonna.
Però. Al Museo Etnografico Sardo di Nuoro c’è una sala zeppa di manichini che indossano abiti da matrimonio e da cerimonia delle varie parti della Sardegna. Entrando in questa sala mi si è accesa la lampadina: e se trovassi l’abito da sposa indossato dalla mia bisnonna?

Così ho cominciato a cercare. Mi sono emozionata. Non ho trovato un abito tradizionale di Lei, il paese di origine della mia bisnonna, ma ho pensato che quello di Macomer (dove nacque mia nonna) non doveva essere poi molto diverso. Ebbene, per me è stato come catapultarmi indietro di un secolo e più, davanti ad una donna in abito lungo e nero, velata, con al petto un gioiello vistosissimo e pesantissimo in oro lavorato a filigrana.
Davanti a quella vetrina io mi sono immaginata una scena in bianco e nero, fatta di abiti tradizionali, di due ragazzi giovani che sfilano in mezzo al corteo di amici e parenti in questa festa di matrimonio che assumeva i toni di una festa di paese, corale. Bellissimo.
I Mamuthones e le altre maschere della Barbagia

I Mamuthones non appartengono minimamente al mio retroterra culturale. Mamoiada non ha niente a che vedere con Lei o con Macomer, è verso sud rispetto a Nuoro. Però il mito dei Mamuthones, espressione più tipica del folklore della Barbagia, ha varcato i confini dell’isola e affascina perché appartiene ad un tempo lontano fatto di riti che ci portano in un mondo agricolo e pastorale, ancestrale. Un mondo fatto di maschere da indossare durante il periodo di Carnevale.
I Mamuthones sono l’anima del Carnevale di Mamoiada. Indossano una maschera di legno dai tratti umani, sì, ma duri e tragici. Escono per la prima esibizione fin dal 17 gennaio, festa di Sant’Antonio cui la Barbagia è devota. La loro danza rituale è fatta di infiniti passi ritmati, avanti e indietro, ossessivi, ripetitivi. Sembra quasi, per chi lo esegue un rito scandito da movimenti precisi.

Ma non ci sono solo i Mamuthones di Mamoiada. Ci sono per esempio i Boes e i Merdules di Ottana.
I Boes indossano pelli di pecora bianche, una cinghia di campanacci a tracolla (così come i Mamuthones) e una maschera in legno, detta carazza, a forma di muso di bue, da cui il nome. I Merdules invece rappresentano il bovaro rozzo e deforme (tanto che spesso sono rappresentati con la gobba), indossano pelli nere e sul volto portano una maschera antropomorfa, ma grottesca. Merdule e Boe sono legati: il Merdule infatti, il bovaro, tiene il Boe con una catena alla vita, ma di fatto invece che domarlo ne imita il comportamento selvatico e aggressivo.

C’è poi, tra le altre maschere, quella femminile della filatrice, la Filanzana che, sgraziata, spesso gobba, e con una maschera simile a quella del Merdule, tiene in mano una rocca di fili di lana, che simboleggiano la fragilità umana, mentre al collo porta un paio di forbici. Inevitabilmente il pensiero va a quella delle tre Parche che taglia il filo della vita dell’individuo. Ma rispetto al mito di matrice greca questa maschera sarda è decisamente più prosaica: va in giro per il paese minacciando con le forbici di tagliare il filo a chiunque non le offra da bere. O tempora, (o loca) o mores!
Poi c’è Su Bundu: una maschera tradizionale di Orani caratterizzata da un cappotto lungo nero in orbace, cappuccio e maschera e copricapo a forma piramidale in sughero. Bundu, nel dialetto della regione del Logudoro, significa demone e in effetti la maschera nulla ha né di umano né di animalesco.
Quindi ci sono le Caratzas. Sono maschere antropomorfe e zoomorfe tipiche del Carnevale di Ottana: esistono le caratzas ‘e boe che riproducono bucrani, ovvero teste di bove in legno con lunghe corna sottili e decorate ad incisioni con rosette e altri motivi che variano da esemplare a esemplare.

Ci sono poi le Caratzas ‘e porcu, e persino le Caratzas ‘e Merdule: queste sono antropomorfe, e il volto ha un ghigno oppure un’espressione di dolore; in ogni caso è caricaturale e grottesca.
Infine c’è l’Eritaju, colui che indossa il riccio, maschera tipica del paese di Orotelli. L’Eritaju indossa un saio bianco da frate e una collana di dischi di sughero coperti di aculei di riccio, l’eritaju appunto. Questa maschera ha implicazioni sessuali: l’Eritaju durante la festa avvicinava le fanciulle con l’intento di pungere con gli aculei dei dischi della collana i loro seni; il simbolismo legato alla penetrazione maschile, quindi alla fecondazione, appare evidente. E come sempre tutto ciò va riconnesso al mondo agrario e pastorale e alla fertilità.
Nel Museo Etnografico Sardo è stata ricostruita la scena tipica di approccio dell’Eritaju che cerca di abbordare una ragazza la quale si scansa: in assenza di fotografie (dell’uso di questa maschera si perdono le tracce alla fine dell’Ottocento) si realizza un diorama particolarmente ben riuscito.

Oro, argento, corallo, filigrana e stuzzicadenti
C’è qualcosa che non torna nel titolo di questo paragrafo? Se fosse un gioco di enigmistica avreste già indovinato: lo stuzzicadenti non c’entra nulla con oro, argento e corallo, materiali base dei gioielli, o con la filigrana, la tecnica di lavorazione dell’oro. Eppure anche l’ispuligadentes (traduzione in sardo di stuzzicadenti) è un elemento della gioielleria tradizionale sarda.


Anzi, dovreste vedere che gioielli! Gli ispuligadentes non sono infatti dei semplici uncini in argento, ma fanno parte di una composizione che spesso somiglia più a una ruota dentata o a un sole radiato. Gli esemplari più antichi ricordano la forma del cuore, da cui si distaccano due elementi allungati, sottili e ricurvi veri e propri: uno è lo stuzzicadenti vero e proprio, appuntito, l’altro invece termina con una piccola spatolina. Col passare del tempo l’uso pratico dello stuzzicadenti in argento si è perso e, pur se si è mantenuta pressoché inalterata la forma, ha assunto maggior valore l’aspetto decorativo e apotropaico, per cui possiamo vedere elaboratissimi ispuligadentes con applicazione degli “occhi di Santa Lucia” o addirittura con piccole teche per immagini sacre.
I gioielli presentano lavorazioni finissime: a filigrana e granulazione, con inserti in corallo; spesso in forma di amuleto raffigurano animali, come le cavallette. Gioielli elaborati caratterizzano anche gli abiti cerimoniali e da sposa. Sicuramente anche la mia bisnonna ne avrà indossato uno nel giorno del suo matrimonio, magari ereditato dalla madre, e dalla madre di sua madre…
Il pane. L’alimento più antico e più sacro
Quella del pane in Sardegna è una vera e propria arte. I pani cerimoniali hanno forme e decorazioni variegatissime che si adeguano ad ogni esigenza e – soprattutto – ad ogni festa religiosa.
Il pane di San Marco, ad esempio, non sembra neanche pane: le forme sono decorate con tante finissime foglioline e petali che tutto sembrano fuorché pani. E infatti non sono realizzate tanto per essere mangiati, quanto come offerte cerimoniali in onore del santo.
Tra i vari pani, merita menzione il “Pane della croce” preparato a Siurgius nella seconda settimana di ottobre, festa de is Bagadìus, i non sposati. Questa festa, soppressa dalla Chiesa nel 1954, prevedeva che tre famiglie preparassero dei pani che venivano posti a cuocere su una croce, andando a formare per l’appunto il pane della croce, un pane composito, animato da tante figure. La figura principale, l’angùli, si disponeva al centro, mentre sugli angoli e sulle diagonali si ponevano figure varie di animali o di bambine, pippìas. Il pane della croce poteva arrivare a pesare addirittura 20 kg! Veniva poi distribuito tra le famiglie di scapoli che avevano contribuito a realizzarlo.

L’altro pane davvero interessante è su Lazzareddu, il pane del tempo di Pasqua a forma di omino rivestito di bende, a ricordare Lazzaro che fu resuscitato da Gesù Cristo. La cosa interessante, che ho scoperto grazie a Lucia, blogger di Una penna spuntata, è che a Cipro per la Domenica delle Palme vengono preparati analoghi pani, che si chiamano, guarda un po’, Lazarakia. Il Mediterraneo è molto più piccolo di quello che pensiamo.

Il Museo Etnografico Sardo è un’immersione nelle tradizioni sarde più folkloristiche e interessanti. Le maschere del carnevale, gli abiti tradizionali, i gioielli, il pane sono altrettante espressioni di usanze e tradizioni di una Sardegna che è ben lontana dall’immagine dell’isola delle spiagge Deluxe e della Costa Smeralda con cui è venduta ai turisti.
In collaborazione con Mice Sardinia Network
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