Antonio Mansi, Il diritto dell’Archeologia

Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio D.Lgs. 42/2004 dovendo regolamentare la materia legislativa in materia di Beni Culturali, si occupa necessariamente anche di archeologia. Nei tanti post dedicati alle Mattonelle di Diritto dei Beni Culturali ho trattato necessariamente la parte relativa ai ritrovamenti e alle ricerche archeologiche, ovviamente: un intero capo del Titolo II del Codice tratta di ritrovamenti e scoperte, e di fatto l’archeologia è una materia molto particolare da trattare giuridicamente.

Antonio Mansi, Il diritto dell’archeologia

Per questo quando mi sono imbattuta nel volume “Il Diritto dell’Archeologia” di Antonio Mansi non ho avuto esitazioni: lo voglio, ho bisogno di un approfondimento sul tema. Perché se il Diritto dei Beni Culturali è materia vasta e complessa, non lo è di meno la branca relativa alla sola archeologia. Per formazione, poi, e per professione, dovrò per forza sbattere il muso d’ora in avanti proprio negli articoli del Codice specifici sull’archeologia. E cosa c’è di meglio che un approfondimento specifico?

Il Diritto dell’Archeologia poi non riguarda solo gli articoli ad essa dedicati nel Codice, perché l’archeologia, meglio l’archeologia preventiva, è regolata in altri ambiti: nel Nuovo Codice degli Appalti, per esempio, all’art. 25 è regolata tutta la sequela di operazioni e procedure da seguire in materia di ricerche di archeologia preventiva in presenza di lavori pubblici.

Ecco che allora un libro sul diritto dell’archeologia potrebbe davvero fare la differenza e dire tutto quello che c’è da sapere sull’archeologia dal punto di vista giuridico.

Invece, a mio parere, questo volume rimane incompleto. E poco aggiornato, nonostante sia del 2016, quindi appena dell’anno scorso.

Interessante la prima parte nella quale si cercano definizioni, così come il diritto vuole: va innanzitutto definito ciò che si vuole regolamentare. Ma, si osserva nel volume, la definizione di archeologia dal punto di vista del diritto non è certo la definizione “scientifica” della disciplina. Anche perché, se proprio vogliamo essere pignoli, la definizione stessa di archeologia, intesa nel suo essere disciplina, metodo di indagine, ambito di applicazione, si è notevolmente ampliata ed evoluta nei decenni e ogni volta ha dovuto cercare nuovi modi per definire se stessa. Di conseguenza il diritto non può stare dietro a tutte le innovazioni della disciplina, ma ha bisogno di punti fermi, certi.

Il punto fermo, certo, dal punto di vista del diritto, è che lo Stato ha il potere-dovere di interessarsi di tutti gli aspetti dell’archeologia, di erigersi a garante e custode (p. 26). Nei decenni, con l’evolvere della disciplina, dal punto di vista del diritto l’obiettivo si è esteso dalla raccolta delle cose (i singoli oggetti, reperti o oggetti d’arte antica) alla raccolta dei dati (i dati di scavo, Unità Stratigrafiche, rapporti stratigrafici, campionature, rilievo e georefenziazione): un’evoluzione non da poco, che in Italia viene recepita ai tempi della Commissione Franceschini (quando ancora non esisteva un ministero dei Beni Culturali: bisognerà attendere il 1975 e il Ministro Spadolini perché ciò si verifichi). Si estende dunque il concetto di tutela: non si protegge il singolo oggetto o sito, ma si fa rientrare nell’ambito della tutela il passaggio fondamentale e determinante della conoscenza, quindi dell’acquisizione e studio dei dati. La definizione di Tutela, nel Codice, art. 3, è proprio questa:

La tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione.

L’autore del volume, Antonio Mansi, non è un archeologo, ma un docente di Diritto dei Beni Culturali (che peraltro, guardando brevemente la biografia, era già vivo e attivo ai tempi delle Leggi del 1939!) perciò tante uscite poco felici che si incontrano nel testo sono dovute al suo non essere archeologo e non essere addentro alla materia se non da un punto di vista giuridico. Tante infatti sono, a mio parere, le lacune in questo testo e tante sono, per contro, le ripetizioni di concetti. Inoltre, l’autore fa un po’ di confusione, ogni tanto, dovuta proprio al suo non essere archeologo, ma giurista. Un problema che pone è infatti quello di considerare reperti archeologici gli oggetti aventi più di 100 anni (sempre stando al Codice): non tiene conto però del valore del contesto nell’individuazione di un oggetto come archeologico (o meglio, importante ai fini dell’interpretazione della storia e delle fasi del sito) oppure no. In più (p. 34) l’autore fa confusione tra il meccanismo della tutela indiretta e le zone di interesse archeologico.

Molto utile, al capitolo 2, l’elencazione di tutti gli articoli del Codice inerenti in qualche misura o totalmente l’archeologia. Al capitolo 3 troviamo invece un interessante excursus storico sulle leggi di tutela dell’archeologia, con una distinzione tra antichità e archeologia, cosa e bene culturale. In particolare quest’ultima distinzione, sulla quale il Mansi insiste parecchio nel volume, è molto importante perché consente di capire bene e definitivamente la differenza tra la cosa di interesse culturale, che è tale prima di essere dichiarata, e il bene di interesse culturale, che è tale in quanto è stato dichiarato.

editto del Cardinal Pacca sopra le antichità e gli scavi ,Roma 1820

Dall’excursus del Capitolo 3 apprendiamo che risale fino all’Editto Pacca del 1820, legge dello Stato Pontificio, la titolarità dello stato sulle ricerche e le concessioni di ricerca. A tal proposito il Mansi tiene a rimarcare più volte come questa titolarità e ingerenza dello Stato siano state recepite ancora nel Codice e come esse si pongano come limitazioni del diritto di proprietà privata. In effetti, esercizi come la prelazione, l’espropriazione, l’occupazione temporanea e la tutela indiretta sono limitazioni alla proprietà privata perché impongono l’intervento statale e restrizioni all’utilizzo di beni di proprietà privata.

Al Capitolo 4 si parla di interesse archeologico: come si accerta? In sostanza il riferimento è agli articoli 12 e 13 del Codice, per i quali si verifica e si dichiara l’interesse culturale di un oggetto o immobile. L’interesse archeologico non è altro che una specifica all’interno del più ampio termine “culturale”. Ma la cosa che fa la differenza tra un oggetto (manufatto o sito) archeologico e un oggetto culturale in senso lato è che l’interesse archeologico non ha a che fare col pregio artistico: la cosa archeologica è sempre un bene culturale, qualsiasi essa sia.

Al Capitolo 6 viene spiegato il dogma dei dogmi: le ricerche archeologiche sono affidate allo Stato; le cose ritrovate appartengono allo Stato. In termini giuridici si parla di riserva statale in materia archeologica. Essa è alla base dell’ordinamento dell’archeologia, ed è ciò su cui si fonda tutta la struttura della tutela statale in materia di archeologia, comprese le concessioni di scavo alle Università o ad altri enti: allo Stato, in quanto titolare ultimo delle ricerche, vanno restituiti i risultati di scavi e indagini, i ritrovamenti in termini di oggetti e monumenti, e i dati (anche se i dati grezzi dovrebbero essere liberi: da anni Mappa Project si batte su questo punto e molti altri lavorano in questa direzione).

La vera nota negativa del libro è il brevissimo, incompleto e non aggiornato capitolo sulla verifica preventiva dell’interesse archeologico nel caso di esecuzione di opere pubbliche: 3 paginette scarse (lo stesso articolo 25 del D. Lgs 50/2016 Nuovo Codice degli Appalti è più lungo) in cui si parla ancora degli articoli 95 e 96 del D. Lgs 163/2006 (il vecchio Codice dei contratti pubblici; gli articoli 95 e 96 sono confluiti nell’attuale art. 25 del D.Lgs 50/2016).

Segue poi nel libro, la trattazione dei temi prettamente archeologici dell’occupazione temporanea di immobile a fini di ricerca archeologica, di espropriazione (con relativa indennità), di archeologia subacquea (due paginette scarse) e di “tesoro“: questa definizione, che lì per lì lascia perplessi, è fornita dall’art. 932 del Codice Civile e stimola alcune riflessioni interessanti.

Tesoro è qualunque cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario.
Il tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova. Se il tesoro è trovato nel fondo altrui, purché sia stato scoperto per solo effetto del caso, spetta per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore. La stessa disposizione si applica se il tesoro è scoperto in una cosa mobile altrui.
Per il ritrovamento degli oggetti d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico si osservano le disposizioni delle leggi speciali.

Siccome tutto ciò che è archeologico è parte del patrimonio indisponibile o del demanio dello Stato, appare evidente che niente di archeologico potrà mai considerarsi tesoro.

Si parla poi di scopritore fortuito e di premio di rinvenimento, di possesso di cose archeologiche da parte di privati e di rapporti tra tutela archeologica, urbanistica ed edilizia, letti attraverso sentenze e casi di studio effettivamente già avvenuti e giudicati.

Gli ultimi capitoli riguardano il commercio di cose archeologiche, la circolazione internazionale e gli aspetti sanzionatori.

Concludendo

Tolta qualche imprecisione e qualche ingenuità dovuta all’autore giurista ma non archeologo, e tolta qualche leggerezza (riferisce sempre al Ministro azioni che non è il Ministro a compiere direttamente ma il Soprintendente o la Direzione Generale: e sappiamo bene quanto sia importante aver chiaro chi fa cosa all’interno del Ministero!), il volume fornisce una disamina completa sulla trattazione dell’archeologia dal punto di vista del Diritto. Peccato solo per la parte sull’archeologia preventiva, che avrei voluto più dettagliatamente spiegata e soprattutto aggiornata alle ultime novità in materia legislativa.

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