Casematte di cemento armato di cui lì per lì non si capisce il significato. In alcuni casi sono stati integrati in edifici successivi, in altri sono rimasti, a ricordo e monito perenne; spesso si trovano in lande desolate, su promontori o spiagge e terreni poco praticati, che incolti erano all’epoca della loro realizzazione e incolti sono tuttora.
Sono le Postazioni Tobruk, realizzate dall’esercito tedesco e italiano durante la 2° Guerra Mondiale per contrastare l’avanzata degli Alleati lungo le coste italiane, a maggior ragione resasi necessarie dopo lo sbarco in Sicilia e poi in continente.
Le postazioni Tobruk e la 2° Guerra Mondiale
La difesa delle coste italiane fu da subito una priorità per il Regio Esercito fin da quando scese in guerra. Per la conformazione del nostro territorio, la difesa delle coste era una necessità imprescindibile ma difficilmente realizzabile. Difendere le coste voleva dire difendere i porti e le città, ma anche e soprattutto i tratti di costa fuori dai centri urbani, strategicamente impossibili da difendere interamente. Le coste furono protette così non solo con artiglierie in postazione fissa, ma anche con batterie mobili su carri ferroviari variamente armati con pezzi di artiglieria e cannoni: i cosiddetti treni armati.

Tuttavia lo sbarco in Sicilia avvenne ugualmente e con esso si innalzarono i livelli di difesa da parte tedesca. I Tedeschi avevano ben poca considerazione delle difese italiane, perciò avviarono un’intensa perimetrazione delle coste attraverso la realizzazione di nuove postazioni di artiglieria, di bunker dotati di cannoni e/o mitragliatrici, di muraglioni antisbarco e di ostacoli anticarro lungo le spiagge o sulle alture. Fu determinante l’intervento dell’Organizzazione Todt, una grande impresa di costruzioni tedesca che operò al fianco dell’esercito nazista per realizzare tutte le infrastrutture necessarie alla guerra dalla Normandia all’Italia: per realizzare le casematte venivano impiegati senza sosta operai italiani che appositamente non venivano reclutati, per poter servire la Patria in quest’altro modo; per ogni bunker servivano 48 ore di lavoro, dunque era stata messa in piedi una catena di montaggio umana davvero mastodontica, che doveva lavorare in fretta.
Fu realizzata una grossa rete di casematte in cemento armato, chiamate Tobruk. Per controllare le principali vie di comunicazione litoranee furono allestiti dei posti di blocco costieri (Pbc): costruzioni in cemento armato contenenti una camera di combattimento circolare con almeno 4 feritoie e armate con mitragliatrice. I Tobruk erano nidi di mitragliatrici, semplici ma efficaci postazioni che i Tedeschi avevano ripreso da analoghe strutture italiane impiegate durante la guerra in Nord Africa, composte da un vano sotterraneo con un’apertura circolare sulla sommità ed una piccola riserva per le munizioni o un ricovero per il personale.

Tobruk lungo le coste italiane
Ho incontrato per la prima volta una postazione Tobruk a Sanremo, nel sito archeologico della Villa romana della Foce. Non che le due cose fossero collegate, ma nell’ottica dell’archeologia globale, non si poteva tralasciare questo aspetto della storia del sito, che si riconnette poi alla storia del territorio di Sanremo e della costa ligure che, per la sua vicinanza al confine francese, ebbe quantomai bisogno di grosse opere di difesa, molte delle quali si incontrano ancora nel territorio.
Li ho incontrati poi nel 2016 in una piccola mostra fotografica e documentaria organizzata a Ferrara nel Museo del Risorgimento e della Resistenza e basata su Memento, il progetto fotografico di Francesca Occhi che ha documentato le postazioni Tobruk e le altre tipologie di bunker nel territorio del Delta del Po, altro punto strategico sia per la difesa della penisola da parte tedesca che per la risalita da parte Alleata: il Delta del Po, infatti, avrebbe potuto essere un buon punto di risalita verso la Germania e i Tedeschi non potevano lasciarlo sguarnito.

Infine, mi ci sono imbattuta a Capo Colonna, Crotone. Lungo la strada che percorre il promontorio fino ad arrivare al Capo si incontrano alcuni bunker. Uno in particolare, sulla cima del promontorio a picco sul mare, osserva e controlla tutta la costa jonica fino a Crotone e oltre, e si trova vicinissimo al sito archeologico pluristratificato di Capo Colonna, che ospitò dapprima il santuario di Hera Lacinia, poi la città romana di Croto, quindi fu fortificata già una volta con la costruzione della Torre Nao, e che fu ed è luogo di culto perché qui si trovava la tela della Madonna che secondo la tradizione i Turchi non riuscirono in alcun modo a bruciare. In questo palinsesto archeologico davvero notevole e complesso, l’ultimo capitolo è stato scritto proprio durante la 2° Guerra mondiale: qui anzi, col fiato sul collo degli Alleati che erano sbarcati in Sicilia e poi, dopo, avevano iniziato la risalita dalla Calabria, fu capillare la realizzazione di tali fortificazioni.

Bunker della 2° Guerra Mondiale, paesaggio e patrimonio culturale
Il mio interesse per le postazioni Tobruk nasce a Sanremo, come dicevo sopra. Come sempre in questi casi, dovendo studiare il bunker di Foce per completare la storia del sito, mi sono appassionata al tema, così ho sviluppato l’occhio. Quando ho rivisto le casematte a Capo Colonna, nonostante la tipologia sia differente, le ho riconosciute subito. E ho riflettuto su come questi oggetti oggi siano inseriti nel territorio privi di qualsiasi contestualizzazione o spiegazione. Non un cartello che ne indichi la presenza, non un cartello che dica di cosa si tratta e perché sono stati lasciati lì. Questi cimeli, se li vogliamo chiamare così, stuzzicano l’interesse principalmente di storici locali o di appassionati, meno delle istituzioni.
Sarebbe interessante invece pensare a un progetto di valorizzazione, magari su scala regionale (lo stesso andrebbe fatto in tutte le regioni interessate, non solo la Calabria), sulla scorta di quanto avviene in Toscana lungo la Linea Gotica, oppure lungo la costa dell’Emilia Romagna con i “Bunker Tour” realizzati dagli Istituti Storici dell’Emilia Romagna in rete: un progetto che li metta a sistema, che li faccia diventare oggetti parlanti. A maggior ragione nel territorio di Capo Colonna, e in particolare nel Parco Archeologico, in cui già si coglie il passare del tempo nelle successive stratificazioni, edificazioni e utilizzi del promontorio, la casamatta della 2° Guerra Mondiale si inserisce come punto di arrivo della storia di un territorio da sempre strategico e posto a controllo del mar Jonio nel punto in cui diventa davvero mare aperto.
Capo Colonna: un parco archeologico completo
In questo senso il Parco Archeologico di Capo Colonna racchiude in sé la definizione stessa di Parco archeologico, così com’è fornita dalla normativa (art. 101 D. gs 42/2004):
un ambito territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come museo all’aperto
Ovvero compresenza di valori differenti e che anche dal punto di vista storico possono variare nettamente. ecco che andiamo dal VI a.C. al 1943 con nonchalance, ma perché è questo stesso il concetto di storia: lo scorrere e il mutare del tempo, la stratificazione di strutture, strati e oggetti, il passaggio di uomini e genti, la differente percezione dei luoghi da parte di chi lì per lì li ha vissuti. Proprio questo rende affascinante un territorio, proprio questo un parco archeologico deve restituire.
buon pomeriggio, volevo sapere se esistono delle piante sulla disposizione dei tobruk e se effettivamente era uno standard che fossero disposti in formazione circolare attorno ad una casamatta. Grazie
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Buon pomeriggio. Online esistono alcune risorse in tedesco proprio sui tobruk e sulla loro architettura. Lì potrà trovare tutte le informazioni utili e approfondire con ulteriore bibliografia
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