Ed è giunto il momento di condividere le mie considerazioni a margine dell’evento. Non saranno esaustive né profonde, saranno più un flusso senza capo né coda, ma sono le riflessioni di un’archeologa blogger che si è avvicinata all’archeologia pubblica perché persegue un interesse: quello di un’archeologia legata a filo doppio con la società per il ruolo di comunicazione che deve svolgere verso chi la società la compone, cioè i cittadini. Perché la società non è un’entità astratta, ma concreta, fatta di persone con cui quotidianamente l’archeologia, anch’essa nelle sue manifestazioni concrete, si deve rapportare.
Inizio pertanto le mie riflessioni citando Guido Vannini in chiusura di congresso: “L’archeologia pubblica in Italia non avrà un’etichetta, ma non parte certo da zero!”. È infatti la definizione stessa di Archeologia Pubblica che a me sta stretta. O per lo meno mi convince poco. Perché l’archeologia è per sua natura pubblica, ha insita nel suo stesso essere una funzione pubblica di utilità sociale. O almeno così dovrebbe essere. Già due anni fa, in occasione del workshop di archeologia pubblica in Toscana, che avevo seguito perché incuriosita da questa definizione, non mi era piaciuto dover specificare la qualità “pubblica”, creando quella che ai miei occhi era, ed è tuttora, una tautologia. Ma tant’è, siamo in un mondo in cui c’è bisogno di specificare per non rischiare di dare per scontato; perciò accolgo di buon grado la definizione anche se, come Vannini, ritengo che in Italia ci siano molti casi, per fortuna, di archeologia pubblica che passa semplicemente sotto il nome di archeologia. E basta vedere la nutrita serie di poster che è stata presentata e che mostra un’ampia gamma di attività, progetti, idee… Daniele Manacorda, nel suo discorso conclusivo alla prima giornata di congresso, diceva ad un certo punto che dobbiamo essere creativi, anzi, avere coraggio creativo. E io in molti dei poster ho visto proprio la creatività in azione, la scommessa e il mettersi in gioco; è un po’ un luogo comune, che è emerso in questi giorni, che per una fetta di non addetti ai lavori l’archeologia sia elitaria, l’archeologo chiuso nella sua torre d’avorio in cui studia e non rivela nulla di ciò che ha scoperto. Ma tutti questi progetti segnalati nei poster parlano invece di archeologi che scendono in mezzo alla gente, che lavorano confrontandosi con le persone, costruiscono progetti in collaborazione con le persone. E per tutti quelli che sono stati presentati tanti altri ne esistono, ne sono sicura.
Centrale, naturalmente, il ruolo della formazione, che ha suscitato un seppur minimo dibattito. Il problema della formazione, però, a mio parere, non è tanto l’organizzazione universitaria in 3+2 a confronto con la vecchia gloriosa laurea quadriennale, o la miriade di specializzazioni: queste casomai corrono il rischio di trasformare i laureati in tecnici con competenze troppo specifiche in un campo ristrettissimo che però poi rischiano di far perdere di vista la visione d’insieme. Ma non mi va di generalizzare. Il vero problema è, a mio parere, che ho ascoltato la mia prima lezione di comunicazione e la mia prima lezione di economia applicata ai BBCC rispettivamente da Chiara Bonacchi e da Massimo Montella nei loro interventi al Congresso. E questo è male, molto male. L’università dovrebbe offrire competenze in grado di affrontare il mondo reale non solo inteso come mondo del lavoro, ma come terreno del confronto quotidiano tra archeologi e persone. E l’altro problema, che riguarda la formazione, ma contro cui la formazione può poco, è il mondo del lavoro, che non riesce ad assorbire i laureati in materie archeologiche, né oggi con la formula del 3+2, né ieri quando gli anni di studio erano 4. Rimane sempre valida la frase che disse quella che sarebbe poi diventata la mia prof di Storia dell’Arte Greca e Romana a Genova quando, ormai 12 anni fa, neanche ancora matricola, andai alla presentazione del corso di laurea in Beni Culturali: disse che una volta laureati non avremmo trovato facilmente lavoro, ma che avremmo dovuto inventarci, piuttosto, non aspettarci nulla. La situazione del mondo del lavoro nei Beni Culturali è sempre stata questa, dunque, almeno da quando ci sono dentro io (12 anni non mi sembrano pochi!). Il problema del lavoro nei beni culturali è cronico. Forse per questo, però, sarebbe anche l’ora di risolverlo. Anche perché non si può dire che la generazione di archeologi cui appartengo non stia facendo sforzi per cambiare le cose. Questo va riconosciuto. Il coraggio creativo deve partire dalla base, allora, dal riuscire ad ottenere una situazione lavorativa stabile, degna di questo nome. E deve ottenere l’appoggio delle Istituzioni, perché di altre battaglie contro i mulini a vento non ne abbiamo bisogno.
L’aspetto che mi interessa di più dell’archeologia pubblica è, naturalmente, la comunicazione. Da blogger, mi interessa imparare a svolgere un buon ruolo di comunicazione attraverso il web; da custode, vedo tutti i giorni come la comunicazione al pubblico viene disattesa puntualmente in museo. La comunicazione è il fulcro della nostra attività, perché l’archeologia nelle sue manifestazioni si incontra col pubblico comunicando con esso. Se non comunica è estranea e come tale verrà considerata, o incomprensibile, e come tale verrà evitata, anche osteggiata, visto che non se ne capisce il senso.
Oggi all’archeologia è richiesto più che in passato di essere comunicativa. È una domanda che viene non solo da chi l’archeologia la pratica, ma da chi l’archeologia la riceve: il pubblico, i pubblici dell’archeologia vogliono essere attori della comunicazione: per questo trovo bellissimo un progetto come quello di Calangianus “La strada che parla” per il quale le persone del luogo, intervistate, chiamate a raccontare la loro storia personale, si sono ritrovate ad essere parte di un racconto corale, che è il racconto della storia delle loro radici; per questo trovo importante che per il Centro Documentazione di Arcidosso si sia pensato di intervistare la popolazione per decidere in base alle risposte da quale livello base di informazione partire.
Oggi a chi pratica archeologia è richiesta una buona dose di autocritica. Autocritica che non deve scadere in quell’abitudine tutta italiana che consiste nel crogiolarsi nella propria presunta inferiorità di fronte ai paesi stranieri più avanzati di noi su determinate tematiche, ma che consiste nel prendere atto delle difficoltà che si incontrano nei lavori di archeologia: e così ho ammirato Paolo Peduto e la sua lucida ammissione di colpa nel dire che al Castello di Lagopesole si è lasciato sfuggire la situazione di mano, ed ho apprezzato Giovanna Bianchi che ha espresso le problematiche relative alla gestione del Parco Tecnologico delle Colline Metallifere. Mai perdere di vista il senso della realtà, né in una direzione né nell’altra.
Infine, voglio spendere una parola su Twitter e sul livetwitting che si è svolto in sala durante il Congresso. È stato importante, interessante, utile lo scambio con i presenti, l’interesse degli assenti e l’informazione passata in tempo reale. Importante ancora di più conoscere e scambiare due parole vere con le persone dietro i 140 caratteri. La partecipazione è stata sentita, i tweet numerosi e i retweet pure: finalmente abbiamo trovato il modo per comunicare tra noi… Forse i tempi sono maturi per uno scambio che sia una rete, un network di teste pensanti che da ogni parte d’Italia si trovano in una sala virtuale a discutere di archeologia e di comunicazione, di dati aperti (altro nodo importante e centrale), di condivisione e di buone pratiche; ma anche, perché no, di pratiche cattive: perché tutto è importante, e tutto fa esperienza.