Alle volte, in una carta d’archivio apparentemente insignificante e pure fuori posto, può celarsi la chiave per cominciare a dipanare una matassa fatta di notizie contraddittorie, di scarna documentazione, di ricostruzioni storiche che vanno se non riviste, quanto meno lette sotto altri punti di vista.
L’archeologo oggi, per fortuna, non è più il cercatore di tesori, ma piuttosto colui che – quando quei “tesori” sono stati rinvenuti quando ancora l’archeologia era ben lungi dall’essere una disciplina con delle regole e delle metodologie, quando interessava l’oggetto di pregio e non il suo contesto – torna indietro a cercare documenti dell’epoca dei ritrovamenti, cercando di capire la storia del rinvenimento e, con essa, anche qualcosa di più sul manufatto o sul contesto che sta indagando.

Così avviene per la ricerca che Gianluca Miniaci, docente di Archeologia, Lingua e Storia dell’antico Egitto all’Università di Pisa, ha condotto, e di cui ci dà conto ne “Il tesoro perduto della regina Ahhotep. Una donna alla riconquista dell’Egitto antico“, edito per i tipi di Carocci Editore. Un volumetto divulgativo (ma non troppo) che si articola su tre livelli: da una parte la contestualizzazione storica di un periodo, quello in cui l’Egitto vede la dominazione degli Hyksos, fino alla fine di quella dominazione; da una parte la storia degli scavi, la terza il “tesoro” del titolo del libro, cioè il corredo funerario del sarcofago della regina Ahhotep, che – anche se piuttosto sconosciuta all’infuori del mondo degli Egittologi, in realtà giocò un ruolo chiave proprio nella fine della dominazione Hyksos.
La struttura del volume è interessante: in un percorso circolare, la trattazione si apre e poi si chiude con le vicende storiche e la contestualizzazione storica nella quale dobbiamo calare la vita di Ahhotep; in mezzo stanno la storia degli scavi, che vedono protagonista Auguste Mariette, uno dei padri dell’Egittologia, la lettura critica di questa storia e, naturalmente, la descrizione e l’interpretazione del corredo della regina il cui sarcofago fu rinvenuto nella necropoli di Dra Abu-el-Naga in circostanze poco chiare: non in un pozzo con camera funeraria, come solitamente per quell’epoca, né in presenza di Mariette, anche se lui si arrogherà il prestigio della scoperta.
Lo stile è molto godibile. Miniaci ci accompagna per mano nella non semplice comprensione delle vicende storiche, geografiche e politiche del periodo compreso tra il 1700 e il 1550 a.C., con una scrittura scorrevole e mai noiosa; ma trova una verve che sfiora l’entusiasmo che è proprio del ricercatore quando ti racconta di una questione che lo appassiona, quando racconta di Mariette, degli Scavi in Egitto nel XIX secolo, delle insidie e dei dispetti, dei personaggi loschi e delle pratiche non proprio ortodosse che si consumavano sugli scavi (a partire dalla distruzione delle mummie per cercare scarabei e gioielli tra le bende, sorte che capita anche a Ahhotep). E che dire della scoperta di Deir-el-Bahri e della doppia Ahhotep? Ma andiamo con ordine…
Una lettura, dunque, dicevo, che scorre via veloce, leggera, mentre la mole di informazioni è al contrario densa e suscita senz’altro tante domande e tante riflessioni e suggestioni.

Il volume è correlato da una pianta dell’Egitto iniziale e fondamentale per orientarsi per chi non è egittologo, né appassionato di Egitto; una planimetria della necropoli di Dra Abu-el-Naga, per collocare la (presunta) collocazione del sarcofago di Ahhotep in relazione alle altre sepolture presenti; le immagini a colori del sarcofago e degli oggetti del corredo della regina Ahhotep che, per la loro ricchezza a suo tempo fecero decisamente notizia: solo la successiva scoperta della tomba di Tutankamon ne offuscò la fama mandandola quasi nel dimenticatoio. Ecco che questa ricerca, e questo libro, restituiscono il giusto valore alla regina, al suo corredo, alla sua storia e al suo ruolo nelle vicende politiche dell’Antico Egitto. Con una riflessione amara su come certe pratiche del passato nella ricerca archeologica (e in Egitto soprattutto) abbiano cancellato tantissimo potenziale informativo che oggi è complicatissimo riuscire a ricostruire.
Misteri su misteri…
Allora, se mi leggete da tempo sapete come la penso. Parlare di misteri o di enigmi associati all’archeologia mi fa venire le bolle. Qui però è diverso. E sapientemente Miniaci parla di misteri o di enigmi: niente di trascendentale o di ufologico, perché le cose che non tornano nella ricostruzione storica (da qui il ricorrere alle parole mistero o enigma) non riguardano l’antico, ma le vicende recenti della regina, la sua seconda vita, cioè dalla sua scoperta (avvenuta, come accennato, in circostanze, per l’appunto, misteriose) all’entità del suo corredo, ricco di oggetti d’oro, ma privo di banali oggetti in ceramica. Banali si fa per dire, perché ricorrevano sempre nelle sepolture dei faraoni e delle regine.

Ciò che Miniaci ci fa capire è che ci sono molti punti oscuri nella storia del rinvenimento, della redazione dell’inventario, della sua musealizzazione. A questo si unisce il fatto che all’epoca della scoperta, il 1859, non si aveva idea di chi fosse Ahhotep, perché ancora molto si doveva ricostruire della storia millenaria degli Egizi. Insomma, in presenza di documentazione fallace, incompleta e contraddittoria, l’unica soluzione per capire qualcosa di più su questa regina e sul suo ruolo nelle vicende che portarono alla sconfitta degli Hyksos e alla costituzione della XVIII dinastia, è andare al nocciolo della questione: allo studio dei manufatti, dei reperti, ai materiali, alle iconografie, alle provenienze. Si scopre così un gioco di alleanze che sembra parlare la lingua di una globalizzazione ante litteram (una cosa simile aveva adombrato, per altri faraoni e tempo dopo, Eric H. Cline nel suo “1177 a.C. Il collasso della civiltà” di cui parlo in questo post) e che è tanto più affascinante per chi legge, perché per formazione a scuola ci hanno insegnato a ragionare e a studiare le civiltà del passato per compartimenti stagni. E invece spesso queste civiltà convivevano e ancora troppo poco sappiamo dei reciproci contatti sociali e commerciali. Il mondo antico era molto più “globalizzato” (passatemi il termine) di quanto noi sappiamo e pensiamo.
Una Ahhotep, anzi due, e infiniti Ahmose
Ecco, devo dire che a un certo punto ho vacillato: quando cioè entra in scena una seconda Ahhotep il cui sarcofago è soperto a Deir el-Bahari, il nascondiglio di mummie di faraoni la cui scoperta ha decisamente scritto un capitolo importante di storia egizia.
Ma dunque di chi stiamo parlando?
Ecco che allora Miniaci cerca di farci raccapezzare tra due Ahhotep, un primo faraone Ahmose, due Ahmose figli suoi, uno dei quali destinato al trono e l’altro no, ma che invece avranno destino opposto, un Khamose che è al di fuori della linea dinastica e che non ha eredi maschi e in realtà diventa faraone ma ancora la sua figura non è chiara, una Ahmose Nefertari, moglie dell’Ahmose che poi diventerà il faraone che sconfiggerà gli Hyksos e che quello dei due Ahmose che non era destinato a diventare faraone… Vabbè, ho spoilerato già troppo. Comunque ho apprezzato la scelta narrativa dell’autore di lasciare il racconto della riconquista dell’Egitto da parte di Ahmose ad un generale del suo esercito, Ahmose di nome pure lui, il quale fa carriera nell’esercito tebano e sulle pareti della sua tomba lascerà scritto a beneficio degli archeologi e di noi, che leggiamo questo libro, come l’esercito del Faraone sconfisse gli Hyksos ad Avaris inseguendoli fino in Palestina. Mai, come in Egitto, i reperti parlano. Saperli leggere, interpretare, incastrare e abbinare con altri tipi di fonte è ciò che rende straordinario il lavoro di ricerca che c’è alla base.

Proprio questo emerge dalla lettura di questo volume: un progetto di ricerca complesso avviato nel 2020 in seno all’Università di Pisa, un progetto che ha visto varie sedi, che si è confrontato con una pluralità di fonti e di dati, che ha cercato soprattutto di restituire voce e dignità a una regina di cui, tranne il nome e il suo prezioso corredo funebre, non si sapeva granché.







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