Fu il sogno di gloria del califfo, Abdel Rahmann III, che la costruì ex novo e la fece capitale del califfato indipendente di El Andaluz. Ma fu distrutta dopo appena 80 anni dalla posa della prima pietra. Medina Azahara (Madinat Al Zahra) racconta una storia breve ma intensa, ed è al tempo stesso metafora della caducità delle cose umane e del potere vivifico dell’archeologia.
Ho avuto l’occasione di visitare la città islamica di Medina Azahara nel corso di una study visit organizzata da Casa Árabe nell’ambito del progetto europeo Green Heritage (Europa Creativa) di cui ho parlato già a proposito del parco archeologico di Viminacium.
Cos’è Casa Arabe
Mi pare doveroso, innanzitutto, presentare l’ente che ha fatto gli onori di casa, organizzando la study visit di Cordoba e non limitandosi a mostrarci il sito di Medina Azahara, ma presentandoci anche gli stakeholders principali con i quali fa rete per la promozione e valorizzazione dell’antica e sfortunata città andalusa (per la quale, peraltro, ha curato e seguito tutto l’iter che ha portato al conferimento del sito UNESCO).
Per non fare errori, traduco dal sito web ufficiale: Casa Árabe è un ente di diritto pubblico di natura interamministrativa, collegato all’Amministrazione Generale dello Stato, con personalità giuridica propria, piena capacità di agire e patrimonio proprio. Il consorzio è composto dal Ministero degli Affari Esteri, dell’Unione Europea e della Cooperazione (MAEUEC), dall’Agenzia Spagnola per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale (AECID), dal Governo Regionale dell’Andalusia, dal Governo Regionale di Madrid, dal Comune di Madrid e dal Comune di Cordoba.
Casa Árabe opera come centro strategico per le relazioni della Spagna con il mondo arabo. Un punto d’incontro in cui diversi attori e istituzioni, sia pubblici che privati, provenienti dai settori dell’economia, dell’istruzione, del mondo accademico, della politica e della cultura, dialogano, interagiscono, stabiliscono linee di cooperazione e intraprendono progetti comuni.

Fin dalla sua fondazione, nel 2006, Casa Árabe ha operato come piattaforma attiva e strumento della diplomazia pubblica spagnola, integrando le sue azioni in una solida rete di Casas insieme a Casa de América, Casa Asia, Casa África, Casa del Mediterráneo e Centro Sefarad-Israel.
Per svolgere la sua missione, Casa Árabe dispone di due sedi, a Madrid e a Cordoba, che la collocano in una posizione geografica privilegiata, non solo nella regione mediterranea, ma anche come mediatore di scambi tra le Americhe e i Paesi del Golfo Arabico, dove la presenza di imprese e professionisti spagnoli è in aumento.
Tra gli obiettivi finali dell’istituzione ci sono i temi del favorire i legami economici, diffondere la conoscenza, incanalare il dialogo interculturale e analizzare e mediare i cambiamenti socio-politici che interessano i Paesi arabi e islamici.
Medina Azahara, il sogno di un califfo
E veniamo finalmente al sito archeologico di Medina Azahara. Anzi, prima del sito, cerchiamo di ricostruire la storia di questa città quasi ideale, capitale di un califfato indipendente, El Andaluz, che deve il nome – narra la leggenda – alla concubina preferita del califfo. In realtà Madinat Al Zahra significa città dei fiori o città splendente.

La costruzione della città fu avviata nel 936, a pochi km di distanza da Cordoba, con la funzione di vera e propria città di rappresentanza del nuovo Califfato proclamato da Abd el Rahmann III stesso. Il progetto urbanistico era avveniristico: adagiato alle pendici della Sierra Morena, si sviluppava su terrazze ed era a pianta rettangolare, organizzata con strade ortogonali, una rete fognaria e canalizzazioni per l’acqua. La terrazza superiore era, ovviamente, occupata dall’Alcazar, il palazzo reale, la residenza del Jaffar e le residenze della corte califfale. L’Alcazar era arricchito da giardini con ampie vasche d’acqua, sul modello – almeno, a me ha suscitato questo paragone – dei Jardins de la Menara di Marrakech, più in piccolo. E non solo, anche il palazzo era arredato con stile e grande lusso, tanto da suscitare l’esaltazione e l’ammirazione nei visitatori dell’epoca, in particolare degli ambasciatori dei regni cristiani che, in attesa di essere ricevuti, erano “costretti” a godere della bellezza dei grandi ambienti e degli esotici e freschi giardini; esatto: queste lunghe attese avevano proprio l’effetto di lasciare tempo ai visitatori di restare meravigliati e in contemplazione degli strabilianti arredi e delle fastose architetture del palazzo. E in effetti la sua identificazione simbolica con il Paraíso, il concetto stesso di città aulica e la sua organizzazione urbana gerarchica, nonché il cerimoniale che circondava i percorsi ufficiali, rispondevano a uno studiato esercizio del potere e della sua legittimazione attraverso l’opera costruita.

Dal punto di vista architettonico, Medina Azahara fu il laboratorio in cui si forgiò il messaggio rinnovato che doveva essere diffuso attraverso l’architettura come esaltazione dello Stato islamico trionfante. Questo sviluppo fu un processo graduale e prolungato che accompagnò la costruzione e la trasformazione della città palatina durante il regno di Abd el Rahmann III e del suo successore. Da qui certi stilemi architettonici si diffusero non solo nel Califfato, ma ne travalicarono i confini
In particolare le facciate monumentali divennero l’immagine simbolica più rappresentativa del califfato, sia nella capitale che nella periferia. Lo scopo imperiale che definisce le costruzioni ufficiali dell’epoca si sposa molto bene con il prestigio delle porte come punti di esaltazione ideologica e manifestazione del potere. Queste porte, di cui a Medina Azahara troviamo alcuni esempi, con le loro aperture ad arco, sono segnali eloquenti di un’architettura statale propagandistica: gli archi si possono considerare veri e propri archi di trionfo. Proprio a Medina Azahara si conserva (reinnalzata mediante anastilosi) la Bāb al-
Sudda, vera e propria facciata porticata di ingresso alla città palatina da est. concepita come una vera e propria quinta scenografica.

Sudda
Non mi dilungo oltre sull’architettura omayyade e sull’impulso che Abd el Rahmann III diede al suo sviluppo in chiave propagandistica. Però consiglio un volume in cui fortuitamente mi sono imbattuta e che è scaricabile gratuitamente online: La arquitectura del poder en la frontera sur de Al-Andalus durante el califato de Córdoba, di Pedro Gurriarán Daza.
Torniamo a noi.
Il sogno del califfo, come tutti i sogni, era destinato a durare poco. Neanche 80 anni dopo la posa della prima pietra, dopo che Abd El Rahmann III era ormai morto da un po’, la città nel 1010 fu assaltata durante una guerra civile; dopodiché la distruzione fu portata avanti da una tribù islamica iconoclasta. All’inizio dell’XI secolo Medina Azahara era già un cumulo di macerie. Per secoli fu una cava a cielo aperto di materiali da costruzione, sia per costruire i nuovi edifici di Cordoba che – in epoca cristiana – per costruire i monasteri nei dintorni. Pietra su pietra, è stato smontato in maniera scientifica, esemplare. Un vero cantiere di distruzione, durato secoli, ha attinto a questa cava di materiali da costruzione, di pietre già squadrate, di conci già modellati; e poi è giunto il tempo, che copre ogni cosa, facendola scomparire. Facendo scomparire, quasi, pure la memoria del fasto che Medina Azahara fu.
Secoli di abbandono e di dimenticanza. Solo una diceria, che la indicava come Cordova vecchia. Niente di più falso, perché Cordoba aveva continuato a vivere e a crescere, prima, durante e dopo Medina Azahara. Lo stesso Abd el Rahmann III aveva contribuito all’ingrandimento della Mezquita, segno che la nuova città non aveva sostituito la vecchia Qurtuba.
E poi nel 1911 iniziano gli scavi. Che da lì in avanti non si sono più fermati.
Medina Azahara oggi
Solo dal 2009 l’area archeologica di Medina Azahara, Oggi Patrimonio dell’Umanità UNESCO, con annesso museo, ha aperto al pubblico.
Il museo, non particolarmente grande, espone le decorazioni architettoniche più significative e la cultura materiale, tutti reperti rinvenuti nel corso degli scavi. In un auditorium è trasmesso un video introduttivo ed esplicativo che descrive la città: realizzato in computer grafica, anche piuttosto accattivante, è sicuramente ben fatto, anche se mancano alcuni elementi essenziali, quali ad esempio un minimo di inquadramento territoriale e un minimo di orientamento degli edifici descritti all’interno della città. Soprattutto manca, nella visita al sito, qualche rimando a questo video, che potrebbe essere invece utile per riconnettere le due cose, la ricostruzione in digitale e i resti monumentali dal vivo. In ogni caso, questa ricostruzione è fondamentale per riuscire a capire e a orientarsi. Perché rispetto a ciò che fu la città durante i suoi 80 anni di vita, oggi si vede e si capisce veramente ben poco; non solo, ma per una certa ironia della sorte, si stenta a comprendere tutta la grandiosità che invece Abd el Rahmann III aveva voluto manifestare.

L’ingresso all’area archeologica è ben distante dal museo e dal parcheggio. Per raggiungerlo occorre prendere una navetta, con biglietto a pagamento, o in alternativa fare una lunga passeggiata a piedi in salita. La cosa buffa è che si paga la navetta, ma non il biglietto del museo/area archeologica, che è gratuito per i cittadini dell’UE. Una scelta piuttosto coraggiosa, quella di non far pagare il biglietto, ma diffusa: anche il museo archeologico di Cordoba, ad esempio, è ad ingresso gratuito. Resta però il dubbio di come un sito di questo tipo possa sostenersi senza introiti dati dalla bigliettazione. Tornerò su questo punto.
La visita al sito archeologico parte dall’alto, a scendere attraverso le terrazze in cui era articolato il palazzo del Califfo e quello del suo Jaffar, il primo ministro. Dall’alto, la vista spazia sul territorio circostante, fino a Cordoba, della quale si vede, laggiù in fondo, l’antico minareto della Mezquita, oggi campanile della cattedrale.
Come dicevo in apertura, del magnifico palazzo del Califfo resta più poco, e quel poco in elevato è per giunta frutto di un’analstilosi. Difficile, dunque, capire, orientarsi, spiegarsi come potesse essere così magnificente tutto questo. Io, che sono abituata a confrontarmi con le città romane abbandonate, scavate e restaurate, in teoria dovrei essere in grado di orientarmi. Eppure no, faccio fatica, perché l’archeologia islamica è cosa altra da quella romana: diverse sono le architetture, gli stilemi, la distribuzione degli spazi. Così mi salta lampante agli occhi quello che in realtà è l’uovo di Colombo: se non ho le chiavi di lettura giuste, difficilmente posso interpretare qualcosa che è diverso da ciò che conosco. E qui faccio un mea culpa: per me è normale interpretare edifici di età romana semplicemente vedendo, che ne so, le suspensurae che indiziano il calidarium di un impianto termale; oppure, all’interno di una domus, individuare l’atrium e di conseguenza tutto il resto dell’abitazione che ci si sviluppa intorno; o ancora, un teatro o un anfiteatro: riconoscibilissimi per me.

Invece a Madinat al Zahra questo non avviene. Le architetture sono diverse, l’articolazione degli spazi completamente diversa. Le architetture islamiche sono ben diverse da quelle romane, rispondono ad altre esigenze ed hanno specifiche funzioni. Ebbene, non è facile orientarsi e comprenderle. Il video visto nello spazio del museo prima della visita aiuta, ma non è sufficiente a orientarsi sul posto. Il percorso di visita, indicato e segnalato, è però fortemente limitato dai restauri in corso d’opera – che per carità, ci stanno, soprattutto se realizzati nell’ottica dell’accessibilità. Ma è proprio questo il punto, che qui non ci sono percorsi accessibili. In più non c’è una pannellistica adeguata e alcune aree, tra cui quella della moschea, sono interdette alla visita. E allora?
Allora va detto quanto segue. Siamo archeologi, conosciamo molto bene le dinamiche di lungo periodo. Il sito archeologico di Madinat Al Zahra è stato aperto al pubblico solo nel 2009, dunque l’altroieri, se ci pensate. E’ stato aperto dopo decenni di scavi e di restauri, mentre man mano si sviluppavano metodologie e tecnologie sempre nuove per affrontare lo scavo, la ricerca, l’anastlilosi, non ultima la valorizzazione. Arriviamo a oggi, con l’utilizzo delle prospezioni per individuare strutture, le quali invece individuano fosse di spoliazione continue, impattanti, che certo seguono pedisseque le antiche strutture, ma che raccontano una storia secolare di spoliazioni e di veri e propri cantieri di distruzione (tema che mi è caro, guarda un po’!).
Tutto questo purtroppo non si percepisce dalla visita. Eppure è importante raccontare, soprattutto alla popolazione di Cordoba e dintorni, quanto questa che fu città magnifica, che sta ancora sotto i campi agricoli moderni, fu un faro di ricchezza e prosperità, un luogo talmente bello da sembrare quasi una favola. E probabilmente questo fu per i secoli successivi per gli abitanti di Cordoba: il sogno di un califfo, che si dissolse poco più di una generazione dopo di lui.
Medina Azahara oggi: valorizzare, disseminare, far vivere una città antica
Medina Azahara oggi è dunque un’area archeologica fuori Cordoba, raggiungibile solo in automobile (ignoro se vi sia trasporto locale, ma credo di sapere la risposta), il cui bacino di utenza è principalmente quello delle scuole, dei turisti di un certo livello culturale regionali o spagnoli e di chi aderisce al circuito dei siti arabi e/o andalusi. Però Medina Azahara è sito incluso nella lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO, anche e soprattutto grazie al lavoro condotto da Casa Arabe, che ha costruito il progetto di lungo periodo che ha fatto sì da assicurare il traguardo.
Ma Medina Azahara ha tante problematiche, oltre ad avere tanto potenziale. Innanzitutto, dell’intera superficie è stato scavato solo il 12%, che corrisponde all’Alcazar e alle sue pertinenze. Tutto il resto è stato spoliato ed è tuttora in pericolo per via delle proprietà terriere private che insistono su porzioni di esso. Dunque, la prima operazione da compiere è quella di sensibilizzare la cittadinanza su quanto sia importante ciò che sta sotto i loro piedi. E non importante in quanto economicamente rilevante, ma importante in quanto identitario.
La storia di Medina Azahara è buffa, perché se ci facciamo caso, davvero la città viva è stata distrutta dopo soli 80 anni; ma oggi che la città è per definizione “morta”, in quanto musealizzata e congelata in quelle scelte ricostruttive che hanno privilegiato un’arcata piuttosto che un’altra, in realtà sta vivendo una nuova vita, che è quella delle sue rovine, del fantasma di un tempo che fu. Mi sale una riflessione, come un rigurgito. La città di Medina Azahara in realtà non è stata così memorabile. Distrutta dopo 80 anni dalla sua costruzione, poteva solo viverne il ricordo nelle memorie di qualche ambasciatore contemporaneo.
80 anni dunque. A malapena 80 anni. Lo spazio di due generazioni e la città ideale e magnifica del califfo si sgretola. E se ne perde memoria, nei secoli, fino agli scavi di inizio Novecento. Oggi, insignita del titolo UNESCO, Medina Azahara è investita di un ruolo e di un valore che forse non pensava di avere, ma che invece è magnifico: Medina Azahara rappresenta la perfetta sintesi della presenza islamica in Spagna nel X secolo. E rappresenta la volontà di un califfo di ritirarsi in un mondo tutto suo, un paradiso in terra. E probabilmente c’era riuscito. Oggi, mentre visitiamo l’area archeologica, ci imbattiamo in cantieri mobili e in divieti di transito per motivi x. Storciamo il naso, ma poi in effetti comprendiamo che senza una quotidiana ordinaria manutenzione, la città che visse per 80 anni, ora rischia di viverne ancora meno.
Far vivere Medina Azahara. Il ruolo degli stakeholders
Stakeholders è una parola che trovo bruttissima. Sono letteralmente i portatori di interessi. Ma interessi quali? Di cosa? Parlare genericamente di stakeholders è come parlare di pubblico dei musei: un tutto indistinto, nel quale però dobbiamo imparare a distinguere le variegatissime voci e istanze di chi lo compone.
Così con gli stakeholders. Proprio all’interno del progetto Green Heritage stiamo imparando a ragionare sul ruolo degli stakeholders, sui livelli di coinvolgimento, sulla necessità di conoscerli prima ancora di cercare un’interazione. Conoscere gli stakeholders significa inevitabilmente conoscere il territorio e la comunità/le comunità che lo compongono.
E tra i vari stakeholders che abbiamo incontrato per Medina Azahara due sono particolarmente interessanti: uno è l’Andalus Medinas Network, una rete dei siti islamici presenti nel territorio andaluso, con finalità di valorizzazione su scala regionale; l’altra è Amigos de Medina Azahara, l’associazione che materialmente realizza attività all’interno del sito, realizzando attività artistiche, aperture in notturna, spettacoli dal vivo: piccole cose, mi direte, ma fondamentali per partire, per far vivere un sito sconosciuto agli stessi abitanti di Cordoba.
La riflessione sugli stakeholders di Medina Azahara si può allargare anche agli stakeholders dei nostri Musei o Parchi archeologici in Italia: in che misura effettivamente vengono coinvolti nella co-progettazione di eventi, attività e manifestazioni di portata culturale con ricadute sul territorio di prossimità? Ecco, esatto: ben poche.
Concludendo
Dopo aver visitato Medina Azahara e conosciuto la sua breve storia, concludo con una riflessione sul tempo relativo e sulla percezione storica di cose e luoghi. Che ruolo ha in tutto questo l’archeologia (pubblica)?
Nel lungo periodo della Storia, e della storia della dominazione araba in Spagna in particolare, Medina Azahara è stata una parentesi, un paragrafo all’interno di un capitolo di un libro. Anche se, abbiamo visto, le innovazioni architettoniche sperimentate e applicate per la prima volta qui poi si diffonderanno in tutto il Califfato e oltre, tuttavia, dopo neanche un secolo non restava pietra su pietra, per via della distruzione, delle reiterate spoliazioni, della memoria che se ne è persa.
Oggi si restituisce alla comunità, in primis ai cittadini di Cordoba, una città antica dalla vita brevissima. Difficile però affezionarsi a un luogo di cui si è ricominciato a parlare da a malapena un secolo. Difficilmente, credo, i cittadini di Cordoba riconoscono Medina Azahara come un luogo identitario: molto di più la Mezquita, che peraltro dall’VIII secolo caratterizza l’urbanistica della città. Cosa può fare l’archeologia allora? Credo sarebbe una forzatura voler convincere la comunità di Cordoba che Medina Azahara sia un luogo identitario, ma ciò che si può fare – e in questo il ruolo di un’associazione come Amigos de Medina Azara è importante – è renderla un luogo familiare, un luogo che le persone possano sentire vicino, in cui si sentano – ed effettivamente vengano – accolte. E questo non riguarda solo Medina Azahara, ma riguarda molti, moltissimi Luoghi della Cultura in Italia. Allora attività di archeologia pubblica, che integrino strumenti diversi, dalle arti performative alle attività laboratoriali, passando per il gaming e per attività di co-progettazione, possono essere lo strumento per abbattere quella distanza – che c’è – fisica e non solo, tra Luoghi dell’Archeologia e cittadini.







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