L’Affaire Greco

La notizia è di due giorni fa: il Direttore del Museo Egizio di Torino, Christian Greco, è sotto attacco, ancora una volta. Un attacco essenzialmente politico, perché non in grado di entrare nel merito delle scelte culturali e di metodo che il Museo Egizio, sotto la guida di Greco, da anni conduce.

Gli attacchi di oggi affondano le radici negli attacchi di ieri, quando addirittura l’attuale presidente del consiglio Meloni si scomodò dalla Garbatella per correre a Torino a protestare contro lo sconto sul biglietto che il Museo Egizio aveva istituito per gli arabofoni, coloro cioè che parlano arabo. Naturalmente la cosa fu trasformata, con abile mossa da fakenews, in “sconto per i mussulmani – discriminazione dei cristiani”, un’argomentazione talmente assurda da risultare grottesca. Perché nella pratica, parlano arabo non soltanto e non necessariamente mussulmani: alla lingua non corrisponde necessariamente la religione: l’Egitto, per esempio, conta una fortissima presenza cristiana copta: e i copti sono al pari di tutti gli altri egiziani, la cittadinanza è la stessa.

Ma naturalmente faceva ben presa sulle masse quella battaglia: un museo italiano che non favorisce gli italiani, ma favorisce gli immigrati. Perché di questo si stava parlando, di razzismo.

Venendo a oggi, non ho capito esattamente quale sia stata la goccia che ha fatto sbroccare la destra torinese al punto da invocare le dimissioni di Christian Greco dalla direzione del Museo Egizio. Francamente nemmeno mi interessa. Però appare evidente che continua a non piacere la politica inclusiva del museo che per primo in Italia si è posto il problema di aprirsi alla comunità nella sua interezza, andando a intercettare i “nuovi residenti”, come lo stesso Greco ha definito, con elegantissima forma, coloro che sono giunti in Italia da altrove e oggi vivono, hanno messo su famiglia, lavorano, in un clima di integrazione che evidentemente, però, è solo a parole.

Il Museo Egizio e il dibattito sul ruolo dei musei nell’integrazione dei migranti

La gratuità ai residenti di Torino di lingua araba sul biglietto del Museo Egizio è stato il primo significativo passo dell’Istituto nella direzione di quello che è diventato oggi un dibattito internazionale sul piano della museologia, ovvero il tema del colonialismo e di conseguenza della decolonizzazione dei musei. Non dimentichiamo come si è formato il Museo Egizio: appropriandosi, nel XIX secolo, attraverso scavi e acquisti sicuramente legittimi o comunque consentiti all’epoca, di beni archeologici identitari dell’Egitto, di fatto depauperandone la consistenza del patrimonio in patria. Il tema del colonialismo nei musei è molto sentito in anni recentissimi a livello internazionale, ma quando nel 2018 il Museo Egizio di Torino istituì lo sconto per gli arabofoni, questo tema non era ancora particolarmente dibattuto, se non in minima parte e molto lontano dall’Italia.

Il Museo Egizio, grazie all’indirizzo dato dal suo direttore Christian Greco, è stato dunque apripista sicuramente in Italia, ma forse anche in Europa (ammetto di non essermi documentata in materia) nel suo interrogarsi, in tempi non sospetti, pre-covid, sul come coinvolgere comunità che sicuramente di propria sponte non frequentano i musei, a scoprire qualcosa che forse invece li poteva riguardare molto da vicino. In questo, si sa, l’agevolazione economica aiuta (purché non la si trasformi demagocicamente nell’assalto alla diligenza che è diventata la #domenicalmuseo), ma il Museo Egizio non ha fatto solo questo, ha abbinato mediatori culturali, laboratori, attività specifiche. Signori, questa è Archeologia Pubblica. Pubblica e inclusiva.

Non è un caso che il Museo Egizio per primo abbia fatto un workshop sul tema del rapporto tra i musei e i migranti. Gli atti del workshop internazionale sono disponibili gratuitamente online. Leggerli è molto importante, perché fa capire quanto il Museo Egizio nel 2018 fosse avanti anni luce rispetto a un dibattito che timidamente si sta affacciando nel resto d’Italia oggi.

Il Museo Egizio ha posto al centro del dibattito l’inclusività – che non è solo nei confronti dei diversamente abili, ma anche dei migranti e di tutte quelle categorie solitamente escluse dalla vita pubblica e sociale delle comunità. Il Museo Egizio per primo ha posto l’accento sull’inclusione sociale e culturale delle minoranze etnico-linguistiche che vivono a Torino e dintorni, adottando soluzioni e aprendosi al confronto con altre realtà che cercano di fare altrettanto e che attuano progetti in questo senso. Mettendosi anche al centro del dibattito politico, come detto sopra.

Inclusività è una delle parole-chiave della nuova definizione di museo data dall’ICOM nell’estate 2022, una definizione dunque che possiamo ritenere aggiornata, non superata dal dibattito museologico né tantomeno dalla politica.

Musei e inclusione sociale: il caso del Parco archeologico di Ostia antica

Molto tempo dopo i primi e innovativi passi del Museo Egizio, e quindi di Christian Greco alla sua guida, nel 2022 il Parco archeologico di Ostia antica ha vinto un progetto europeo piccolo dopo tutto, poche migliaia di euro, sufficienti però per avviare un progetto pilota che coinvolgesse le minoranze etniche e linguistiche che gravitano sul territorio. Ci siamo avvalsi dell’importantissima collaborazione con Scuole Migranti di Roma e abbiamo dato vita a un progetto che andrà avanti sicuramente nel 2023-2024 e che intanto è finalista – unico per l’Italia, al ECTN Awards “Destinations of Sustainable Cultural Tourism” 2023 (a proposito, se vuoi votare fai click qui: https://culturaltourism.awardstage.com/public/judging/carousel?EntryId=113744.

Il titolo è “Archeologia Pubblica a Ostia antica” e aveva – e ha – come focus – i “nuovi residenti”, ovvero persone migranti che hanno costruito a Roma la loro seconda vita: persone che, però, spesso non hanno gli strumenti per capire che un luogo come l’area archeologica di Ostia antica è patrimonio comune di tutti.

Il Parco già dal 2020 è inserito nel network dei siti dell’European Heritage Label – Marchio del Patrimonio Europeo, che riunisce 60 siti da tutta Europa che sono portatori di valori importanti per la storia d’Europa o che attraverso se stessi raccontano i diritti fondamentali dell’uomo, quali la multiculturalità, la circolazione internazionale, l’integrazione sociale e religiosa. Tutto ciò che si verificava quotidianamente a Ostia e Portus, luoghi dove davvero si respirava l’aria del melting pot culturale, prima ancora che a Roma. Perché era Portus-Ostia il luogo in cui chiunque provenisse da ogni parte del Mediterraneo prima di tutto sbarcava.

Questa digressione non vuole essere uno spot fine a se stesso, ma vuole dire che nel nostro piccolo abbiamo recepito, fatto nostro e rielaborato il tema sollevato già nel 2018 dal Museo Egizio di Torino, su come attirare quel non-pubblico che è costituito da coloro che per barriere linguistiche e culturali manco ci prova a entrare in un museo.

Torniamo a Torino e alla polemica su Christian Greco.

La polemica è sterile, nasce da una domanda provocatoria di un quotidiano torinese all’assessore al welfare della Regione Piemonte il quale ha tirato fuori dal cilindro una storia vecchia, risalente – come dicevo sopra – al 2018, ma evidentemente mai digerita dalla classe ormai dirigente di FdI-Lega che ora si sente in diritto di poter decidere impunemente della direzione di un museo.

Non entro nel merito delle questioni normative per cui non ha senso appellarsi al ministro perché disponga la sostituzione della direzione del Museo Egizio – cosa non fattibile perché se Anubi vuole il Museo Egizio è in mano a una fondazione privata – ma faccio mie innanzitutto alcune riflessioni di Claudia Procentese nel suo articolo su Il Post in cui sottolinea come la grande assente in tutta la polemica sia l’archeologia (egittologia, in questo caso), mentre tutto ruoti intorno a una mera e discutibile questione politica, che va a rinvangare una vecchia e pretestuosa polemica altrettanto politica, quella che citavo più sopra, con la quale si è cercato di dipingere Greco come un razzista nei confronti dei Cristiani.

Christian Greco in realtà è stato il primo in Italia a porsi il problema di essere direttore di un museo egizio visitato da chiunque fuorché dagli egiziani immigrati e di seconda generazione che vivono a Torino. Un paradosso effettivamente poco spiegabile. Da questa constatazione in avanti, il Museo Egizio è stato capofila in Italia nel dibattito sul tema dell’inclusione delle minoranze etnico-linguistiche residenti in Italia – i nuovi residenti – e conduce il dibattito anche sulla decolonizzazione dei musei.

Senza far polemiche, senza tenere toni alti, sempre tenendo al contrario un tono serio e pacato, “urbano” per citare l’ultimo post sui social, gli account social del Museo Egizio di Torino hanno accompagnato ogni scelta museografica, comunicativa e di marketing, dimostrando che gli uffici del museo lavorano tutti come un organismo unico (non è scontato, vi assicuro). Un organismo che non guarda solo al visitatore, ma anche allo studioso, grazie alle cospicue risorse scientifiche fruibili online.

Il Museo Egizio è un esempio di eccellenza nel panorama museale italiano. Sposa pienamente gli intenti della definizione di Museo di ICOM 2022. Christian Greco negli ultimi 10 anni ha fatto sì da attirare a Torino visitatori solo per visitare il Museo Egizio, il che però ha creato un indotto non indifferente presso le altre strutture ricettive. La polemica di questi giorni è sterile, però tira fuori un altro argomento, toccato dall’articolo di Claudia Procentese che citavo, e che però voglio sviluppare ancora un po’. Perdonatemi.

Politica e musei – i musei sono politici?

In una delle bozze della nuova definizione di Museo prodotta dall’ICOM, ma non passata nella definizione definitivamente approvata un anno fa, nell’agosto 2022, si proponeva di dire che i musei sono luoghi “politici” nel senso che sono strumenti di sviluppo sociale e in quanto tale sono portatori di valori e di istanze proprie della cittadinanza, sono calati nel contesto sociale e civile nel quale sorgono, sono, e devono porsi, come presidi di legalità. Io sono convinta del ruolo politico dei musei in questo senso, ma il problema è che si tende a confondere i piani. La cultura – e quindi con essa i musei in quanto luoghi di cultura e di educazione – ha un ruolo politico in quanto svolge una funzione sociale ed educativa, nonché civica nell’educazione al Patrimonio. Patrimonio che non è esclusivo, ma che appartiene a tutti, a prescindere da età, sesso, professione, provenienza, reddito, lingua e religione, che deve essere preservato e alla cui cura siamo tutti chiamati. Questo evidentemente sfugge a chi ha fatto riscoppiare la polemica in questi giorni. E mi viene il dubbio che nemmeno gli interessi.

2 risposte a “L’Affaire Greco”

  1. […] persone in più del mio normale standard. Segno che certe tematiche sono di attualità (da ultimo, la polemica tutta politica su Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino) o che fanno presa su determinati pubblici (ad esempio un mio […]

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  2. Come veniva discriminato chi parlava Arabo e quindi poteva entrare gratis rispetto a chi non lo parlava e doveva pagare? L’aspetto? Una dichiarazione? Documenti? Un esame linguistico?

    Sarebbe durata 3000 anni la civiltà egizia se avessero fatto entrare in modo indiscriminato persone con cultura diversa al nostro ritmo attuale, per poi addirittura pensare a regole che valgano solo per loro?

    Gli Egizi fecero questo grande errore con gli Hyksos. Immigrati in massa in Egitto arrivarono a prendere il potere. Gli Egizi riuscirono a cacciarli, salvando il loro stato e la loro cultura, solo dopo un secolo.

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