Questo che pubblico è il testo di un mio intervento che avrei dovuto fare – e non ho fatto – oggi a RomaTre, in occasione di un incontro con Francesco Antinucci dal titolo “Ripensare la valorizzazione attraverso la comunicazione nei musei”. In realtà i contenuti della relazione di Antinucci, per quanto interessanti, hanno esulato dal tema previsto, perciò queste mie riflessioni sono rimaste tra me e me. Ma siccome con qualcuno dovevo condividerle, eccole qui:

Nella mia esperienza ormai triennale di assistente alla vigilanza in un museo archeologico statale, vedo tutti i giorni le necessità dei visitatori che cercano di capire il senso di ciò che osservano esposto nelle vetrine, e dall’altra parte vedo come essi siano totalmente abbandonati a se stessi, lasciati da soli a cercare di capire cosa hanno davanti. La comunicazione, intesa come chiave di lettura e di interpretazione delle opere esposte e del senso della collezione esposta, dovrebbe essere un obbligo imprescindibile per ogni museo esistente. Se questo avviene, con esiti più o meno efficaci, nei musei di nuova costituzione, non altrettanto si può dire di musei di antica creazione, le cui collezioni ormai storicizzate e cristallizzate non solo non vengono toccate per paura o per pigrizia, ma non vengono neanche spiegate, con grave danno per il rapporto con il visitatore. Lavoro in un museo nel quale mancano le didascalie agli oggetti esposti e in cui la scarsa illuminazione alle opere principali, che sono poste in una sala buia, colpite da un fascio di luce che a mala pena ne illumina una porzione, ma non consente di coglierne i dettagli, è fatta in modo da far apparire l’opera come un simulacro più che come un oggetto di cultura, che vorrebbe suscitare, nelle intenzioni, un senso di contemplazione estatica dell’opera, ma che nella realtà produce una serie di lamentele da parte dei visitatori, che denunciano il buio. Un museo organizzato in questo modo, senza didascalie né tantomeno pannellistica, per non parlare di supporti multimediali, è un museo muto.
Ma è un museo muto anche quello che alle opere pone didascalie recanti tecnicismi comprensibili solo agli addetti ai lavori; è un museo muto un qualsiasi museo che dà per scontate le informazioni primarie, come la collocazione geografica di una particolare cultura o civiltà, che non mette il visitatore in condizioni di comprendere i criteri espositivi e la natura degli oggetti; è muto un museo nel quale non si tenga conto del pubblico di lingua straniera, ormai sempre più presente nelle nostre città che se dio vuole vivono di turismo culturale. È muto un museo che crea smarrimento nel visitatore, è muto un museo che non attira l’attenzione del visitatore, è muto un museo che permette che il visitatore pensi che una fibula servisse nell’antichità per praticare l’infibulazione alle donne, è muto un museo in cui il visitatore davanti agli specchi etruschi si chiede se sono padelle… e potrei continuare.
La comunicazione in un museo non è cosa banale. Richiede una progettualità, progettualità che deve riguardare il percorso museale, gli strumenti da fornire al visitatore per la corretta interpretazione delle opere e degli oggetti, il linguaggio da utilizzare, i supporti da destinare e non ultima la selezione delle informazioni da trasmettere. Ma prima di tutto richiede uno sforzo di volontà da parte di chi gestisce il museo, che deve spendere risorse, tempo ed energie nell’ideazione del progetto di comunicazione. La pigrizia è il principale nemico della comunicazione nei musei. Non basta lavarsi la coscienza sistemando un video davanti a due o tre opere o all’ingresso del museo per fare comunicazione: il visitatore va accompagnato, in modo che in qualunque momento egli sia messo in condizioni di capire ciò che sta osservando. Così come non è per forza obbligatorio ricorrere a spettacolari ricostruzioni virtuali o effetti speciali: il virtuale o altri tipi di tecnologie applicate ai beni culturali, di cui ultimamente tanto si parla e che vanno anche abbastanza di moda, devono essere un mezzo per produrre comunicazione, non il fine, e devono anch’esse rientrare in un progetto di comunicazione che investa l’intero percorso museale, non una sola porzione. Progetto che non è evidentemente fatto solo di soluzioni tecniche, ma è un progetto culturale!
Un museo che sappia comunicare adeguatamente con il pubblico automaticamente attua la sua valorizzazione. Il rapporto tra comunicazione e valorizzazione è di causa/effetto ed è direttamente proporzionale: più efficacemente viene comunicato il bene, più efficacemente esso sarà valorizzato. Stesso discorso vale per i musei, che sono contenitori di beni. Più efficacemente comunicano con il pubblico, meglio svolgono la loro funzione di trasmissione di cultura, più il pubblico ne riconosce il valore. Ogni progetto di comunicazione museale ha come fine la valorizzazione del museo stesso e della sua collezione attraverso la trasmissione di conoscenza che avviene verso il pubblico. È un’azione rivolta al pubblico, che porta il pubblico a riconoscere il museo come luogo di cultura. Ed è dalla relazione che si instaura col pubblico all’atto della comunicazione, e nella risposta che si ha da parte del pubblico in termini di riconoscimento del valore del bene che si attua il circolo virtuoso della valorizzazione.
Un museo muto è anche un museo che non si promuove, che non pubblicizza se stesso al di fuori delle sue mura, che non attira il pubblico ad entrare. Fermo restando che è necessario prima di tutto rendere fruibile e quindi comprensibile il percorso museale se si vuole invitare il pubblico ad entrare, la promozione di sé è un’operazione che un museo, soprattutto se piccolo o se oscurato da altri musei ben più noti nella stessa città, deve mettere in conto. Per farlo, è oggi più che mai necessario mettersi al passo coi tempi, sfruttando canali che ancora in molti purtroppo considerano frivoli passatempi, ma nei quali invece è racchiuso il futuro della comunicazione: parlo dei social media e della comunicazione online, che giorno dopo giorno sta coinvolgendo anche chi si occupa di cultura, nell’ottica non soltanto di autopromuoversi, ma di interagire con gli utenti. Nel caso dei musei, infatti, gli utenti che si interfacciano online attraverso i social media sono potenziali visitatori, oppure visitatori che vogliono restare aggiornati sulle attività del museo e che potrebbero essere intenzionati a tornarvi. I social media stanno aiutando a far vedere i musei non più come contenitori statici e chiusi di cultura, ma come organismi vivaci e vitali, capaci di coinvolgere i diversi tipi di pubblico e di farli diventare addirittura protagonisti dell’attività museale. Anche per la comunicazione online ci vuole una progettualità, né si può pensare di andare a tentoni per il solo gusto di dire che “il museo è social”, espressione che va tanto di moda ma di cui pochi conoscono davvero il significato. È però un fatto che la valorizzazione dei musei, intesa in questo caso come promozione, ormai passa anche dalla rete, e soprattutto dal web 2.0, nel quale si creano relazioni e interazione ad una scala mai vista, dove si possono coinvolgere direttamente gli utenti e creare partecipazione, sfruttando tutte le potenzialità della comunicazione.
Non entro nel merito dei contenuti del discorso di Antinucci – che poi sono ripresi pari pari dai suoi due volumi “Comunicare nel museo” e “Musei virtuali”. Sottolineo solo che Antinucci sta curando il riallestimento del Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano. Un riallestimento che, almeno per le prime realizzazioni che ci ha presentato, non è niente di esageratamente eclatante: poche soluzioni, in qualche caso ben riuscite, in qualche altro caso non così irresistibili. Ma quello che le rende buone è il lavoro di studio del pubblico e dei suoi comportamenti che è stato condotto all’inizio e che è parte integrante di quella progettualità che dovrebbe stare alla base di qualsiasi progetto di riallestimento, o di comunicazione, di un museo verso i visitatori. Una buona pratica di cui tenere conto.






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