Art X Gender e “I prayed for the resin not to melt”: qualche riflessione sui musei di Bruxelles

Sono stata recentemente a Bruxelles per via di un evento nato in seno allo European Heritage Label, di cui l’Area archeologica è insignita e della quale sono referente. L’occasione è stata propizia per visitare alcuni musei della capitale belga. Qui non mi interessa in realtà parlare dei musei in sé, ma di alcune azioni che ho notato e che mi sembrano interessanti, perché sono embrioni per lo sviluppo di un dibattito (ma anche più d’uno) sul ruolo etico ed educativo dei musei nella società contemporanea. In particolare si tratta di due musei per due temi: il Musée Royal des Beaux-Arts affronta infatti il tema “Art&Gender”, mentre il Museé Royal d’Art et d’Histoire affronta il tema etico del trattamento prima, e dell’esposizione poi, delle mummie e in generale dei resti umani nei musei. Sul secondo mi soffermerò un po’ di più, perché il museo stesso è alquanto controverso.

Art X Gender al Muséé Royal des Beaux-Arts

Non una mostra, o meglio non soltanto una mostra. L’intenzione è quella di far emergere gli stereotipi di genere presenti – e nascosti, o al contrario ben esplicitati – nelle opere del Museo. Museo che accoglie opere dei maestri fiamminghi prima e dopo Bruegel e Rubens, e che ha anche una collezione di arte contemporanea. La mostra-che-mostra-non -è Art X Gender esplora i modi in cui gli stereotipi di genere hanno plasmato e plasmano sia la creazione che la ricezione delle opere. Concepito come uno spazio dinamico per la ricerca e il dialogo, invita visitatrici e visitatori a riflettere sulle norme, gli attributi e i ruoli associati a mascolinità e femminilità, e a porsi domande su quanto siano effettivamente rilevanti queste distinzioni. Gli stereotipi di genere sono basati sull’idea che certe attitudini, o certi tratti fisici e psicologici, maschili e femminili, siano naturali e innati. Questa prospettiva binaria è a tutti gli effetti un costrutto sociale. Nell’arte gli stereotipi si manifestano attraverso il ricorrere di immagini o di pose – in una parola, iconografie – che di fatto percepiamo come “normali”. Ma l’arte è anche lo spazio della protesta, della sovversione o anche della rivoluzione. Così molte opere – nelle collezioni del Musée Royal des Beaux-Arts, certo, ma anche di molti moltissimi musei del mondo, compresi i musei archeologici e di storia dell’arte antica – sfidano i confini, distruggono codici, disturbano aspettative, aprendo le porte a nuove narrazioni e possibilità. Attraverso la selezione e l’esposizione delle opere scelte per questo percorso di visita, Art X Gender offre la possibilità di distaccarsi dal consueto sguardo, incoraggiando i visitatori a guardare oltre.

Poiché nulla è lasciato al caso, e le opere sono in parte sparse nelle sale, in quanto scelte tra quelle della collezione permanente, in parte riunite appositamente per completare il percorso di visita e di senso, un booklet in formato digitale, fruibile tramite qr code, illustra di volta in volta le scelte e le parole chiave che accompagnano le opere.

Gli stereotipi riguardano sia uomini che donne: l’uomo visto come virile e brutale, la donna come dolce, materna, legata ai ruoli domestici, o al contrario tentatrice, peccatrice; stereotipi che sono stati veicolati nel tempo anche attraverso l’arte. Cosa può fare il museo? Come può rendere critica la lettura di un’opera d’arte? Andando a cogliere, ad esempio quegli stereotipi e quei tratti che la attraversano.

Le opere scelte per Art X Gender toccano vari temi. Non sto a elencarli tutti, rimando alla brochure scaricabile online che illustra tutte le scelte invitando a riflettere su ciascuna di esse: https://fine-arts-museum.be/uploads/exhibitions/files/art_x_gender_brochure_fr_digitale_2025_1125.pdf

Personalmente sono stata colpita fin da subito da due opere: una Suzanna (sic!) e i Vecchioni di Willem Van Mieris del 1714 in cui tra l’altro la consueta iconografia, con la fanciulla che viene soltanto spiata dai vecchi, qui va decisamente oltre, perché la fanciulla è aggredita dai due uomini che non solo la guardano, ma la agguantano e la svestono. Il tema scelto per quest’opera è, naturalmente, “Desiderio e Consenso“, dove il desiderio maschile va a cozzare con il consenso – evidentemente non dato – dalla giovane indifesa fanciulla. Analogo tema, “Desiderio e Consenso” registriamo per un’altra opera, intitolata “A la chasse (a caccia)” di Philips Wouwermann nella quale, se lo sguardo è attratto inizialmente dal bel cavallo bianco centrale nella tela, non passa inosservata la scena in ombra, nella quale un uomo sta infilando la mano nel décolleté di una ragazza inginocchiata e intenta, piuttosto, ad accudire le sue capre. Pare che un antico catalogo descrittivo dell’opera chiarisca perfettamente il senso di questa scena, qualora vi siano dubbi: “pare che (il cacciatore) voglia esercitare il suo diritto di signore“.

Ma tra le opere identificate da “Desiderio e Consenso” c’è anche un’altra opera, Lucrezia del Maitre du Saint-Sang, inizi del XVI secolo, nel quale vediamo la romana Lucrezia, con le vesti lacerate e i seni semiscoperti a indicare la violenza subita, che si trafigge con un pugnale. Il suo sguardo colmo di dolore restituisce tutta la drammaticità della scena e del racconto. E un’altra opera, che la guida definisce ambigua, ma che a me pare piuttosto chiara, invece, è La robe de noce, di Louis Gallait, 1873, in cui vediamo una giovane sposa con dei fiorellini in mano, ciò che presumibilmente avanza del bouquet, l’abito da sposa già aperto a mostrare i seni, e l’espressione non esattamente da prima notte di nozze desiderata e consumata con gioia: piuttosto lo sguardo triste di una ragazza costretta a subire suo malgrado. Magari sbaglio, ma certo forse non avrei manco fatto caso a quest’opera se il Musée des Beaux-Arts non l’avesse inserita nel percorso Art X Gender costringendomi quanto meno ad osservarla, e poi a fare tutte le riflessioni del caso.

Gli stereotipi – e le opere scelte – riguardano anche la sfera dell’omosessualità, mettono in discussione la distinzione tra maschietti e femminucce all’interno del nucleo familiare, sottolineano l’equazione (molto colonialista) secondo la quale donna esotica = donna lasciva e sessualmente sfrenata. E altri ancora ce ne sono e vi invito a scoprirli nella guida di cui ho fornito il link più sopra.

Tema senz’altro di attualità, e indubbiamente a livello europeo e internazionale, non solo italiano, quello dell’attenzione agli stereotipi di genere è decisamente divisivo. Già immagino che molti lettori leggendo questa (prima) parte di articolo storceranno il naso. Ma io non voglio farmi paladina di alcuna battaglia, non in questo caso, almeno (quello che penso del tema l’ho sviluppato ampiamente nel saggio “Femminicidio e violenza di genere nell’antica Roma“). In questo caso voglio piuttosto riflettere sul ruolo dei musei nella società contemporanea. Con questa mostra, per quanto piccola, limitata, esperimento embrionale che per sua stessa ammissione si rivolge al pubblico delle scuole superiori, il Musée Royal des Beaux-Arts di Bruxelles scende nell’arena del dibattito pubblico sul tema, non si tiene al di fuori. Il museo si sporca le mani, si cala nella società contemporanea, si fa voce tra le voci. La ritengo un’importante occasione che, tra l’altro, risponde molto bene alla definizione di Museo secondo ICOM 2022.

I prayed for the resin not to melt” al Muséé Royal d’Art et d’Histoire

Immaginate di visitare un museo, un museo ricchissimo di collezioni e di oggetti che spaziano nel tempo e nei luoghi dalle Americhe all’antica Grecia, dalla Cina all’età romana. Passando per l’Egitto. Immaginate di visitare la sezione egizia, ancorché piccola, ma che espone due mummie. Una delle quali vi impressiona particolarmente: perfettamente conservata, vediamo la parte superiore del corpo perché tutta l’abbondante fasciatura di bende che la avvolgeva è stata tagliata via (non sappiamo quando, probabilmente quando la mummia fu acquisita ed esposta in museo, presumibilmente alla fine del XIX secolo). Mentre la guardate con un certo orrore misto a infinita pietà, sentite di immedesimarvi nell’anima di quella mummia, e ne indovinate i pensieri.

La mummia che ha ispirato l’installazione “I prayed for the resin not to melt” di Sara Sallam

Così ha fatto l’artista Sara Sallam, dopo aver visitato il museo nel 2022: impressionata da come quella mummia fosse stata trattata e poi esposta, ha realizzato un’installazione video e soprattutto sonora nella quale ascoltiamo i pensieri del giovane principe Tutankamon, la cui mummia seguì simile percorso dopo la scoperta della sua tomba. Il monologo del giovane principe a tratti commuove, a tratti agita: egli che vorrebbe solo riposare nell’eternità e non diventare mero oggetto in mani altrui. “I prayed for the resin not to melt” è dunque il canto di dolore e di disperazione del defunto che non può riposare in pace, trattato come mero oggetto e senza le dovute attenzioni che si dovrebbero riservare, invece, ai morti.

Quest’installazione ha l’indubbio merito di far riflettere sull’esposizione dei resti umani – in questo caso delle mummie – nei musei. Opera meritoria, senz’altro, che rimane, però, confinata a quella sala del museo.

Altrove, infatti, nella sezione dedicata all’America meridionale, è esposta un’altra mummia, ben più terrificante, se vogliamo: è una mummia chiamata Rascar Capac, risalente a un periodo compreso tra il 1400 e il 1553 e scoperta nel nord del Cile da una missione etnografica belga alla metà dell’Ottocento, esposta in museo dal 1926. Questa mummia, deposta seduta e raggomitolata, ha ispirato il fumetto di Tintin “Les sept boules de Crystal” pubblicato nel 1948, dunque ha a suo modo una certa notorietà. Raspar Capac è esposta all’interno di una vetrina posta al contrario, rivolta cioè contro il muro. In questo modo chi sa che potrebbe impressionarsi non la guarderà, a meno che non lo desideri appositamente. E questa è senza dubbio un’attenzione verso chi si impressiona nel vedere resti umani.

La mummia Rascar Capac

Ma ancora, il Musée d’Art et d’Histoire de Bruxelles, usa altri pesi e altre misure nella sezione dedicata all’età merovingia del Belgio (una sezione archeologica decisamente ben nascosta, va detto…), dove espone diverse sepolture di guerrieri completi dei loro corredi di vasellame e armi. I resti umani dei guerrieri sono sepolti in fosse ricavate in una collinetta chiaramente artificiale che vorrebbe richiamare la necropoli reale, e sono visibili al di sotto di un vetro trasparente sul quale si prega di non camminare (non voglio immaginare la scena se dovesse cedere un vetro): insomma qui non solo i resti umani li vediamo, ma anzi quasi gli camminiamo sopra. Evidentemente le varie sezioni del museo hanno conservatori diversi che hanno idee diverse in merito all’esposizione dei resti umani e una differente sensibilità. Ma in ogni caso è importante, al netto di questa incoerenza di fondo, che il museo si faccia portatore – almeno nella sezione egizia – di una riflessione sul tema etico del trattamento e dell’esposizione dei resti umani.

Una delle sepolture merovingie ricostruite e sistemate nel pavimento della sala museale

Poi sul fatto che due terzi della collezione museale siano la quint’essenza del museo colonialista è un altro discorso. Ma di questo magari ne parliamo un’altra volta.

Concludendo: musei e dibattito contemporaneo

Ho apprezzato la scelta di questi due musei di Bruxelles di mettersi in gioco offrendo ai visitatori non soltanto la tradizionale esposizione di opere (pinacoteca nel primo caso, reperti nel secondo), ma di fare un passo in più, invitando a riflettere su due temi importanti: gli stereotipi di genere con tutto quello che ne consegue, e la morte e come essa venga restituita nei musei.

Se il tema degli stereotipi di genere e della parità di genere è al centro del dibattito pubblico ormai da diversi anni, il tema etico del trattamento dei resti umani nei musei è rimasto fino ad ora confinato tra gli addetti ai lavori, con poche eccezioni quali il Museo Egizio di Torino che già da tempo dialoga con i visitatori su questo aspetto. Esporre i resti umani, siano essi mummie o scheletri può essere disturbante, può anche suscitare paura, può risultare intollerabile per motivazioni etiche e morali assolutamente personali. Per questo la scelta di girare contro il muro la vetrina con la mummia Rascar Capac è una buona soluzione, che dà al visitatore la possibilità di scegliere se guardarla o meno. Per questo lasciare esposta la mummia parzialmente svestita delle bende accanto all’installazione che condanna questa pratica è un’azione che suscita senz’altro più di una riflessione nel visitatore.

Auspico che sempre più spesso i musei osino inserirsi nel dibattito pubblico trattando anche temi scomodi e divisivi: in questo modo potranno svolgere il loro ruolo di spazio pubblico calato nel contesto della contemporaneità e non avulso, non distaccato.

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