La classifica Top30 dei Musei italiani e il modello Tananai (o Vasco, se avete più di 40 anni)

Come al solito, butto nel calderone qualche riflessione sparsa che mi è salita alla mente dalla lettura dei dati pubblicati dal Ministero della cultura sui 30 Luoghi della cultura più visitati d’Italia nel 2024 e da alcuni illustri commenti che già circolano in rete.

Non sto qui a dare i numeri, che personalmente non amo (altrimenti avrei scelto altro percorso di studi in vita mia). Rimando direttamente alla notizia pubblicata sul sito del Ministero della cultura che, in ossequio alla Trasparenza, pubblica tutte le statistiche possibili e immaginabili sui dati di visitatori e introiti dei Musei italiani, anche quelle di cui non pensavamo di avere bisogno: https://statistica.cultura.gov.it/?page_id=961

In particolare gli allegati che ci interessano sono la tavola 8, quella con la lista dei Top30, e la tavola 7, che è interessante perché fornisce i dati per ogni singolo istituto: non è scontato, perché alcune realtà, come ad esempio i Parchi archeologici, hanno competenza su più siti, quindi emettono più biglietti, ma anche, spesso, hanno possibilità di emettere biglietti integrati e/o cumulativi. E veniamo perciò al primo punto.

Cosa si conteggia? I visitatori o gli ingressi?

Chi ha a che fare con le statistiche di un blog o di un sito web lo sa: un conto è il conteggio dei visitatori unici, cioè di quegli utenti che con il loro IP effettuano un accesso, un conto è quante pagine del blog o del sito quei singoli utenti con il loro IP visualizzano. Per questo negi analytics si conteggiano visitatori unici e pagine viste, e solitamente le pagine viste risultano molte di più rispetto ai visitatori unici.

Lo stesso può dirsi per tutti quei musei che hanno un biglietto che dà accesso a più di un sito: c’è il visitatore che sfrutterà tutti gli accessi consentiti e quello che visiterà solo il sito per il quale effettivamente ha acquistato il biglietto. E’ evidente che in un conteggio come si deve si dovrebbe tener conto di questa differenza.

Ora, nelle critiche che stanno girando in queste ore sui social e sui media a commento dei dati forniti dal ministero, si sta facendo strada la voce che alcuni istituti abbiano gonfiato le proprie voci, conteggiando due volte lo stesso visitatore, una volta come pagante, una volta come gratuito, perché aveva acquistato il biglietto che consentiva l’accesso a due siti. Ecco, la questione è tutta terminologica. Non parliamo di visitatori, ma di ingressi. Gli ingressi nei siti di istituti che prevedono biglietti integrati o cumulativi sono pari alle visualizzazioni di pagina web: io posso andare su un blog e decidere di leggermi tutti i post pubblicati: nelle statistiche del blog risulteranno 100 visualizzazioni, ma un solo visitatore unico. Ecco, per i Luoghi della cultura che prevedono biglietto integrato o gratuito il visitatore unico è colui che acquista il biglietto e visita almeno un sito; gli altri siti connessi a quel biglietto ed eventualmente visitati sono semplici “ingressi” ed equivalgono alle “visualizzazioni” su web.

E mentre leggo queste critiche penso che tutto sommato non è un orrore che si conteggino gli ingressi (anche se certo, sarebbe interessante conoscere il dato reale dei visitatori unici), ma anzi, per alcune realtà – anzi per la maggior parte – dovrebbe essere motivo di vanto e anche di studio, ovviamente, capire in che percentuale i visitatori unici del sito principale decidono poi di visitare anche l’altro/gli altri siti/musei compresi nel biglietto. Che poi è il motivo per cui nascono e sono utilizzati sistemi di bigliettazione integrata, card e quant’altro (da ultimo la creazione del circuito con biglietto unico delle ville monumentali della Tuscia): la motivazione a monte è più che virtuosa: invitare le persone che acquistano il biglietto per un Luogo della cultura a visitare – già che ci sono – anche altri siti e questo non nell’ottica – è evidente – del guadagno economico, ma nell’intenzione di fare ciò per cui un museo esiste, ovvero essere presidio culturale, luogo al tempo stesso di intrattenimento e di educazione, luogo familiare.

Un’altra riflessione in ordine sparso nasce invece da un’analisi condotta da Federico Giannini su Finestre sull’Arte proprio a commento della Top30. Nello specifico Giannini analizza il dato della diminuzione del numero di visitatori non paganti a fronte dell’aumento degli introiti. Giannini conduce un’analisi che pone l’accento sull’aumento dei biglietti di alcune realtà museali mentre non spiega quella diminuzione del pubblico non pagante. A me, purtroppo, sorge lampante un’immagine: è evidente che il pubblico non pagante diminuito drasticamente è quello delle scuole, dalle primarie alle secondarie di secondo grado. Tutta quella fetta di visitatori, cioè, gratuiti fino ai 18 anni, insegnanti compresi.

Ecco che allora la riflessione che sorge è un’amara presa di coscienza del fatto che evidentemente nel 2024 meno scuole rispetto al passato hanno scelto di visitare i musei. Questa probabilmente non è solo colpa dei musei ma anche – e qui però chiederei il supporto di insegnanti – di un sistema scolastico che sempre più spesso non è in grado di garantire alle classi (di qualunque livello) gite scolastiche e che, potendo scegliere, fa selezionare gite meno difficili da organizzare (tra prenotazioni di ingressi, visite guidate, pullmann e quant’altro). Oltre al fatto che i programmi scolastici stanno sempre più comprimendo l’archeologia e la storia dell’arte, tanto da non renderla nemmeno appetibile per una gita. E oltre al fatto che, evidentemente, i ministeri non si parlano.

Ecco, questo forse è il dato che mi rattrista di più. Perché nel momento in cui la Scuola si distanzia dai Musei abbiamo un problema di educazione al Patrimonio evidente. L’educazione al Patrimonio (culturale, ma anche ambientale, naturalistico, sociale e civico) deve passare dalla Scuola e avere una sponda nei musei. Se questo non avviene, mi dispiace, ma i Musei hanno fallito. E pure la Scuola, comunque. Viene meno la definizione di museo ICOM 2022, viene meno tutto ciò per cui quotidianamente credo di lavorare. E soprattutto va in controtendenza con le indicazioni UE che invece promuovono progetti che abbiano come target “young people“, cioè gli studenti di scuola, le “nuove generazioni”: e mi riferisco all’European Heritage Label, ma anche ai progetti europei finanziati con bandi Europa Creativa, che mettono al centro il focus sull’educazione al Patrimonio e sulla compartecipazione alla sua valorizzazione e disseminazione. Perché il Patrimonio ci appartiene, e non è questione di numeri.

Come dicevo in apertura, a me i numeri non piacciono. Non mi sono mai piaciuti, perché tendono a incasellare e numerare ciò che invece è o vorrebbe essere fluido e descrivibile. I numeri sono secchi, non hanno sfumature. Sono dati quantitativi, non qualitativi. Nel caso dei numeri dei visitatori dei musei, sono dati secchi, ma incompleti. Incompleti perché asettici, perché non forniscono nessuna informazione sulla qualità della visita, sulla soddisfazione del visitatore, o al contrario sulla sua frustrazione. In realtà questi numeri secchi non ci sanno neanche dire la provenienza dei visitatori: pubblico di prossimità (tra tutti il più sconosciuto)? turisti italiani? Turisti stranieri? E tra questi, quanti in grado – banalmente – di sapersi orientare in una datazione tra a.C. e d.C.?

Manca come sempre – e su questo sposo la causa da sempre portata avanti da Nicolette Mandarano che anche questa volta sui social l’ha ribadito – un’analisi qualitativa, un’indagine a largo raggio sulla sodddisfazione o sull’insoddisfazione dei visitatori, sulle loro aspettative prima della visita e la loro contentezza, o delusione, o indifferenza alla fine della visita. Una bella indagine come già Bourdieu ci aveva mostrato essere fattibile nella Francia dei primi anni ’60 (L’amour de l’art di Pierre Bourdieu racconta proprio gli esiti di un’indagine sui pubblici – innovativa per l’epoca, ma pure per l’oggi in tante realtà – condotta in Francia, in Olanda e in Polonia restituendo uno spaccato della società dell’epoca) e come con poca difficoltà potrebbe essere condotta oggi.

A suo tempo (ancora al tempo del dicastero Franceschini, che sembra un evo fa) i Musei Italiani lanciavano delle survey rivolte al pubblico, molto generaliste nelle domande, ed era già qualcosa. Ma sarebbe importante che ogni istituto conoscesse se stesso attraverso i suoi visitatori, quindi con quesiti mirati e un’analisi puntuale delle risposte, e usare fattivamente quelle risposte per elaborare strategie o nuove e diverse occasioni di fruizione. Alcuni musei statali lo hanno fatto e lo stanno facendo, e ne è stato dato conto già l’anno scorso in occasione del convegno “Allestire l’archeologia“. Si tratta, quando viene messa in pratica, di un’operazione coraggiosa, perché presuppone di mettere in fila i dati raccolti per realizzare un progetto che sia in linea con le aspettative di chi ha risposto ai quesiti. Anche nel campo delle attività didattiche si sta facendo avanti il concetto di co-progettazione, che si basa prima di tutto sull’ascolto dell’audience, cioè dei pubblici interpellati. Ciò permette di costruire attività quasi “taylor made” (non insultatemi), ma che abbiano sempre come finalità la disseminazione e l’educazione al patrimonio. Insomma, la via per coinvolgere i pubblici, o meglio le persone, in realtà è già scritta e già in qualche modo lo facciamo (a Ostia, ma anche altrove).

La Top30 dei Musei Italiani come metafora del Festival di Sanremo e viceversa

La classifica dei Top30 è sicuramente di impatto immediato, sicuramente ribadisce quali sono i vip del Patrimonio culturale italiano, relegando nella parte bassa della classifica “le figlie della serva” del Patrimonio, per non parlare dei Luoghi della cultura che restano fuori dal conteggio e dunque – banalmente – non esistono. Eppure è una classifica a mio parere fine a se stessa: se la canta e se la suona, dice quali sono i top di gamma, si fa tronfia degli introiti aumentati; ma a meno che non si dimostri che quegli introiti rientrano effettivamente nelle competenze di bilancio e gestionali dei singoli istituti che se le sono guadagnate, quegli introiti sono – ancora una volta – numeri che dicono poco.

Propongo, anche se non so esattamente come fare, ma sicuramente qualcuno mi indicherà la via, un sistema di misurazione del livello di qualità della visita che vada oltre il semplice dato numerico – che spesso non consente di distinguere tra visitatore italiano e straniero. Chi lavora nei musei ha bisogno di conoscere, di capire e di interagire con il suo pubblico. Ormai questo rapporto paritario è imprescindibile. I Musei per prima cosa devono essere il luogo di incontro, di formazione, di co-progettazione di attività culturali. Ai numeri ci si pensa dopo. Personalmente, anzi, credo che i numeri siano fuorvianti, e che, comunicati all’esterno, facciano un po’ effetto Festival di Sanremo: vincono i big che sono trasmessi notte e giorno in radio. Eppure, ogni tanto la radio passa quel Tananai, arrivato ultimo in classifica e che da lì a poco sbancherà le vendite e i dischi di platino. O Vasco Rossi con Vita Spericolata.

Ecco, proprio come Tananai dovrebbero ragionare i musei sotto i primi 5 in classifica: non importa quanti visitatori, l’importante è lasciare un segno in ciascuno di essi. Prendete Vasco, che portò al Festival Vita Spericolata, arrivò ultimo ma consegnò quella canzone alla storia della musica italiana. Non importa la classifica annuale, importa seminare e disseminare. Importa piuttosto una gestione dei visitatori che sia sostenibile. E per sostenibile intendo percorsi, servizi igienici, punti di sosta. Altro che Topo Gigio, visitare i musei spesso si rivela un’impresa faticosa e titanica che manco l’Everest. Ecco, se indagini sul pubblico dei musei – fatte bene, con uno scopo progettuale – portassero a risultati che abbiano ricadute anche sulla vita quotidiana, beh, il museo avrebbe fatto bingo. E questo bingo, però, non verrebbe riportato nelle asettiche statistiche del Ministero della cultura, ma direttamente nei dati statistici e di crescita economica.

Concludendo

La classifica dei Top30 dei Musei Italiani tutto sommato fotografa una realtà già consolidata: i primi tre/quattro sono sempre i soliti, alcuni perdono posizioni, altri ne guadagnano. Il gioco è questo: la classifica dei più bravi della classe che se da un lato spinge a gongolare dei numeri raggiunti, dall’altra si chiede dove poter fare di più. E il discrimine sta proprio qui, nel creare eventi e attività di qualità in grado di essere attrattivi per un pubblico ampio, oppure limitarsi ad aprire eccezionalmente in notturna perché tanto la serata è pagata.

La strada da fare è ancora tanta, sia nell’ottica della valorizzazione che in quella fondamentale della tutela e manutenzione. Che se casca un muro c’è poco da valorizzare (e non tutti siamo il Parco del Colosseo con quel fulmine che spacca una scultura dell’Arco di Costantino).

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