Alessandro Marzo Magno, Missione Grande Bellezza

Un libro che potrebbe essere benissimo due. Sono raccontati infatti due periodi storici ben distinti, con protagonisti e dinamiche completamente diverse. Elemento accomunante è la distruzione e dispersione del patrimonio storico-artistico, bibliografico e archivistico d’Italia all’inizio dell’800, sotto Napoleone, e alla metà del ‘900, sotto Hitler.

Il sottotitolo “Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler” è lievemente fuorviante; ci si aspetterebbe le vicende legate alle azioni di singoli personaggi che ebbero un ruolo chiave nei recuperi e nel salvataggio delle opere d’arte italiane, e in effetti in parte è così: Antonio Canova, Rodolfo Siviero, Fernanda Wittgens e Palma Bucarelli sono i nomi principali. Ma un intero capitolo è dedicato all’oscuro personaggio Ante Topic Mimara e poi, cosa più importante e che rende questo testo davvero prezioso, sono i capitoli che tracciano il contesto storico, nei quali il racconto diventa corale.

Dunque non solo azioni di personaggi illustri, ma la ricostruzione di uno, anzi due capitoli di storia.

E dato che di due capitoli si tratta, dividerò questa recensione in due parti, perché se il tema di fondo è uno, le vicende e le considerazioni che se ne traggono sono ben diverse.

1. La Campagna d’Italia di Napoleone

Napoleone in un ritratto di Andrea Appiani (Credits: Wikipedia)

Una cosa del genere è uno sterminio, paragonabile al genocidio degli Ebrei!” Chi ha pronunciato queste parole leggendo il libro, in particolare il capitolo su Venezia e Napoleone, è il mio compagno: un lettore qualsiasi, non esperto del settore. Esattamente il pubblico che questo libro deve raggiungere. Quest’espressione forte, decisamente forte, esasperata, mi ha colpito. Ma in effetti a leggere, pagina dopo pagina, le ruberie e soprattutto le distruzioni deliberate, si rimane davvero basiti, impietriti a vedere come si svolsero furti e devastazioni.

Per le vicende di età napoleonica si distinguono due tipi di danno al patrimonio italiano (anche se l’Italia come stato unitario era ben lontana). Uno ufficiale, voluto dal governo rivoluzionario francese prima, da Napoleone poi, perché fossero portate in Francia (e in particolare al Louvre, all’epoca in fase di costituzione) tutte le principali testimonianze dell’arte in modo che fossero esposte al pubblico, finalmente, tutte insieme; e poi, perché l’Italia, decaduta, non era degna di custodire arte.

È interessante infatti l’atteggiamento della Francia intellettuale nei confronti dell’Italia. Vivant Denont, direttore del Louvre all’epoca, ha proprio l’idea del Louvre come museo universale nel quale finalmente esporre opere altrimenti chiuse nei monasteri. In effetti in Italia, ancora divisa da Sud a Nord nei tanti stati territoriali pre-Congresso di Vienna, non esisteva ancora l’idea di un’arte per il pubblico. Soprattutto, la maggior parte delle opere d’arte importanti era chiusa in chiese e conventi, quindi in nessun modo fruibili. Dietro la “rapina” legalizzata della Francia dunque si può intravvedere il pensiero moderno che le opere d’arte “servano a pubblica e generale utilità. Questa è infatti la condizione necessaria che viene posta allo allo Stato Pontificio perché le opere depredate vi facciano ritorno: l’istituzione di una galleria pubblica che le accolga. Si gettano così le basi per la formazione della Pinacoteca Vaticana.

Le nozze di Cana del Veronese restano al Louvre a causa delle difficoltà di trasporto che ne avrebbero compromesso la conservazione: questa la scusa ufficiale. Credits: Cultura.biografieonline

Alcuni passaggi di queste depredazioni legalizzate ripetute e continuate colpiscono particolarmente: interesse della Francia era diventare il nuovo faro europeo dell’arte e della cultura (motivo per cui depreda l’Italia), ma per far sì che ciò si avveri deve far arrivare le opere d’arte in buono stato di conservazione; ne andrebbe altrimenti della sua credibilità e gli altri stati europei potrebbero rivalersi su di essa (cosa che in realtà faranno ugualmente). Ma le condizioni di trasporto e di imballaggio dell’epoca non erano certo sicure né protette. Così sappiamo che la massima precauzione nel trasportare due opere importantissime quali l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte consiste nel sistemare ciascuna su un carro tirato da 12 bufali. Un carro tirato da bufali. E l’arrivo a Parigi delle statue colossali del Nilo e del Tevere da Roma, insieme a centinaia di altri capolavori dell’arte antica e di pittura, è a tutti gli effetti un trionfo che ricorda quelli celebrati dai comandanti romani vittoriosi: e a me viene in mente immediatamente l’ovazione che celebrò il console Marco Claudio Marcello dopo la presa di Siracusa, con la sfilata a Roma delle tantissime opere d’arte che aveva spoliato. Corsi e ricorsi storici.

La partenza della quadriga di San Marco per Parigi: C. Vernet, Entrée des Français a Venise, en floréal, an 5 da Tableaux historiques des campagnes d’Italie, stampa, 1799, British Museum. Credits: engramma.it

C’è poi l’altra forma di distruzione dell’arte, quella deliberata. Che si tratti di necessità contingenti (fondere gli oggetti in metallo più o meno prezioso per fare armi o monete) o del puro piacere di distruggere (come appare evidente a Venezia), questi sono i danni più drammatici perché dettati dall’ignoranza e dal disprezzo. Nel caso di Venezia in alcuni passaggi si legge proprio il gusto nel distruggere deliberatamente monumenti, arredi sacri, opere che avevano significato identitario per i Veneziani.

2. La Seconda Guerra Mondiale

Rodolfo Siviero con il Pigmalione e Galatea di Pontormo. Credits: wikipedia

L’unico aspetto positivo della Seconda Guerra Mondiale (prendete quest’espressione con le pinze) è che ha portato per la prima volta all’attenzione internazionale il problema del rispetto del patrimonio culturale in quanto valore universale. Per questo sono stati creati i Monuments Men, anche se prima che essi potessero fare qualcosa, l’abbazia di Montecassino era stata fatta saltare in aria proprio dagli Alleati. La consapevolezza che fosse necessario salvaguardare l’arte, l’archeologia, i monumenti non nacque negli animi dall’oggi al domani. Non fu certo facile per i primi Monuments Men convincere i singoli comandanti che non avrebbero dovuto minare una chiesa o un castello perché erano monumenti culturali. Ma piano piano questa idea riuscì a insinuarsi, e da Montecassino alla fine della Guerra si fecero ragguardevoli passi avanti.

L’Italia fu un campo da gioco ricchissimo per Hitler che voleva formare il suo Fürher Museum a Linz e per Göring, appassionato collezionista d’arte. Nella storia dei rapporti tra Italia e Germania prima e durante la guerra si affermano le personalità e le volontà di alcuni personaggi che, qualunque fosse la loro posizione politica, mettono davanti a tutto il salvataggio del patrimonio culturale italiano. La figura dell’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, del quale nel libro viene ricordato il recente film “L’uomo che non cambiò la storia” è tratteggiata con una certa simpatia, mentre di Fernanda Wittgens viene messa in evidenza la grande forza d’animo e il suo attivismo antifascista: difende non solo l’arte, ma è un’eroina, come molte altre figure femminili meno note nell’Italia della Resistenza. Non si capisce molto bene, invece, l’atteggiamento del soprintendente di Firenze Giovanni Poggi.

Hitler agli Uffizi nel 1938. Foto Archivio Luce

In questo capitolo di storia, la depredazione dell’arte italiana va vista secondo ottiche differenti: quella di Hitler, che vuole il suo museo universale e per questo attinge dall’Italia come se fosse un albero di ciliegie. Soprattutto dopo l’8 settembre, la requisizione delle opere d’arte dai depositi nei quali erano state ricoverate per le misure di “protezione antiaerea” diventa l’attività parallela a quella di guerra per i Tedeschi. Anche Göring si muove in tal senso, ma il suo è proprio un furto, visto che vuole arricchire la propria collezione privata.

L’intervento dei Monuments Men fa sì che già nell’immediato si possano recuperare tante opere rubate dai rifugi temporanei; nei tempi successivi darà un prezioso contributo Rodolfo Siviero con il suo Ufficio Recuperi. Ma senza l’intervento dei funzionari statali preposti, veri custodi dell’arte, molto sarebbe andato ulteriormente perduto.

I Monuments Men posano davanti all’autoritratto di Rembrandt appena rinvenuto. Senza il loro lavoro tantissime opere d’arte europee, non solo italiane, sarebbero andate perdute per sempre.

Nonostante i recuperi, numerosissimi ed eclatanti in tanti casi, molto è andato definitivamente perduto, o meglio disperso.

Alessandro Marzo Magno accenna spesso al lavoro dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, il cui corpo, creato nel 1969, nasce come risposta all’esigenza di ritrovare opere d’arte sparite. Un lavoro fondamentale, il loro, che nel corso dei decenni ha messo a punto tantissimi risultati (ancora recentemente raccontati alla mostra degli Uffizi “La tutela tricolore” che prende avvio proprio dall’attività di Siviero).

Per concludere

L’arte logora chi non ce l’ha. La Francia che al debutto dell’800 vuole nominarsi capitale culturale europea prelevando principalmente dall’Italia la maggior parte delle opere, e Hitler che vuole costituire il suo museo universale attingendo a piene mani dall’arte dello Stivale non sono poi molto dissimili. In entrambi i casi non si tiene conto del fatto che depauperare una nazione del proprio patrimonio culturale equivale a cancellarne l’identità culturale. La cosa ai Francesi non interessava minimamente, e forse all’epoca questo concetto ancora doveva essere formulato: anzi, è proprio di quegli anni il dibattito che contrappone l’idea del museo universale come grande enciclopedia museale, cara a Vivant Denon, all’idea di contesto, ovvero che l’opera d’arte e l’ambito in cui è inserita siano interconnessi, di cui si fa portavoce Quatremère de Quincy nelle Lettres à Miranda sur le déplacemente des Monuments de l’Art d’Italie. Nel caso delle depredazioni naziste, esse hanno quasi l’aspetto della ritorsione dopo l’8 settembre 1943.

La Grande Galerie del Louvre rappresentata da Hubert Robert nel 1796

Una cosa che colpisce, e che dovrebbe far riflettere, è l’attenzione posta in entrambi i casi ai libri e ai documenti, alla depredazione di intere biblioteche e di archivi storici. La perdita di interi archivi equivale, quella sì, davvero alla cancellazione della Storia di singole istituzioni, periodi storici, città, famiglie. Il danno è davvero enorme, e di questo erano già consapevoli a Venezia durante le distruzioni francesi. Questo dovrebbe far riflettere su quanto all’epoca fosse riconosciuto un grande valore ai documenti, mentre oggi gli archivi sono un po’ considerati i figli della serva dei beni culturali, con poche risorse a disposizione.

Alessandro Marzo Magno usa una prosa brillante, inserisce fin troppi dettagli nella prima sezione, in particolare su Venezia; rende molto scorrevole invece, quasi un romanzo d’avventura, la parte sulle depredazioni naziste. È molto aggiornato: il libro, pubblicato nel 2017, fa riferimento a circostanze anche di fine 2016. Apre uno squarcio su un capitolo di storia del nostro patrimonio molto attuale per la tematica e lascia la strada aperta a tante, tante riflessioni. Se siete giunti fino alla fine della lettura di questo post, ve ne siete senz’altro resi conto.

7 pensieri su “Alessandro Marzo Magno, Missione Grande Bellezza

  1. Grazie. Recensione bellissima e completa. Solo una cosa: Ante Topiċ Mimara è sì un personaggio oscuro, ma è anche uno dei più clamorosi farabutti che abbia mai incontrato, gli otto quadri di proprietà italiana che ha portato a Belgrado nel 1949 stanno ancora lì, e questo giustifica la sua presenza nel libro.

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    1. Oh! Wow! Sono onorata che l’autore abbia letto la mia recensione!
      Ecco, di Ante Topic Mimara non ho osato arrivare a dire tanto. Comunque dalle sue pagine si capisce, forte e chiaro.
      Approfitto di questo spazio per portarle i complimenti da parte del mio compagno, che sta leggendo il libro in questo periodo.

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    2. Ante Topic Mimara e’ anche protagonista de “Il Re dei Confessori”, di Thomas Hoving, che fu direttore del Metropolitan. Anche in quel celebre caso, svolgendo un ruolo torbido.

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