Il museo muto

Questo che pubblico è il testo di un mio intervento che avrei dovuto fare – e non ho fatto – oggi a RomaTre, in occasione di un incontro con Francesco Antinucci dal titolo “Ripensare la valorizzazione attraverso la comunicazione nei musei”. In realtà i contenuti della relazione di Antinucci, per quanto interessanti, hanno esulato dal tema previsto, perciò queste mie riflessioni sono rimaste tra me e me. Ma siccome con qualcuno dovevo condividerle, eccole qui:

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Nella mia esperienza ormai triennale di assistente alla vigilanza in un museo archeologico statale, vedo tutti i giorni le necessità dei visitatori che cercano di capire il senso di ciò che osservano esposto nelle vetrine, e dall’altra parte vedo come essi siano totalmente abbandonati a se stessi, lasciati da soli a cercare di capire cosa hanno davanti. La comunicazione, intesa come chiave di lettura e di interpretazione delle opere esposte e del senso della collezione esposta, dovrebbe essere un obbligo imprescindibile per ogni museo esistente. Se questo avviene, con esiti più o meno efficaci, nei musei di nuova costituzione, non altrettanto si può dire di musei di antica creazione, le cui collezioni ormai storicizzate e cristallizzate non solo non vengono toccate per paura o per pigrizia, ma non vengono neanche spiegate, con grave danno per il rapporto con il visitatore. Lavoro in un museo nel quale mancano le didascalie agli oggetti esposti e in cui la scarsa illuminazione alle opere principali, che sono poste in una sala buia, colpite da un fascio di luce che a mala pena ne illumina una porzione, ma non consente di coglierne i dettagli, è fatta in modo da far apparire l’opera come un simulacro più che come un oggetto di cultura, che vorrebbe suscitare, nelle intenzioni, un senso di contemplazione estatica dell’opera, ma che nella realtà produce una serie di lamentele da parte dei visitatori, che denunciano il buio. Un museo organizzato in questo modo, senza didascalie né tantomeno pannellistica, per non parlare di supporti multimediali, è un museo muto.

Ma è un museo muto anche quello che alle opere pone didascalie recanti tecnicismi comprensibili solo agli addetti ai lavori; è un museo muto un qualsiasi museo che dà per scontate le informazioni primarie, come la collocazione geografica di una particolare cultura o civiltà, che non mette il visitatore in condizioni di comprendere i criteri espositivi e la natura degli oggetti; è muto un museo nel quale non si tenga conto del pubblico di lingua straniera, ormai sempre più presente nelle nostre città che se dio vuole vivono di turismo culturale. È muto un museo che crea smarrimento nel visitatore, è muto un museo che non attira l’attenzione del visitatore, è muto un museo che permette che il visitatore pensi che una fibula servisse nell’antichità per praticare l’infibulazione alle donne, è muto un museo in cui il visitatore davanti agli specchi etruschi si chiede se sono padelle… e potrei continuare.

La comunicazione in un museo non è cosa banale. Richiede una progettualità, progettualità che deve riguardare il percorso museale, gli strumenti da fornire al visitatore per la corretta interpretazione delle opere e degli oggetti, il linguaggio da utilizzare, i supporti da destinare e non ultima la selezione delle informazioni da trasmettere. Ma prima di tutto richiede uno sforzo di volontà da parte di chi gestisce il museo, che deve spendere risorse, tempo ed energie nell’ideazione del progetto di comunicazione. La pigrizia è il principale nemico della comunicazione nei musei. Non basta lavarsi la coscienza sistemando un video davanti a due o tre opere o all’ingresso del museo per fare comunicazione: il visitatore va accompagnato, in modo che in qualunque momento egli sia messo in condizioni di capire ciò che sta osservando. Così come non è per forza obbligatorio ricorrere a spettacolari ricostruzioni virtuali o effetti speciali: il virtuale o altri tipi di tecnologie applicate ai beni culturali, di cui ultimamente tanto si parla e che vanno anche abbastanza di moda, devono essere un mezzo per produrre comunicazione, non il fine, e devono anch’esse rientrare in un progetto di comunicazione che investa l’intero percorso museale, non una sola porzione. Progetto che non è evidentemente fatto solo di soluzioni tecniche, ma è un progetto culturale!

Un museo che sappia comunicare adeguatamente con il pubblico automaticamente attua la sua valorizzazione. Il rapporto tra comunicazione e valorizzazione è di causa/effetto ed è direttamente proporzionale: più efficacemente viene comunicato il bene, più efficacemente esso sarà valorizzato. Stesso discorso vale per i musei, che sono contenitori di beni. Più efficacemente comunicano con il pubblico, meglio svolgono la loro funzione di trasmissione di cultura, più il pubblico ne riconosce il valore. Ogni progetto di comunicazione museale ha come fine la valorizzazione del museo stesso e della sua collezione attraverso la trasmissione di conoscenza che avviene verso il pubblico. È un’azione rivolta al pubblico, che porta il pubblico a riconoscere il museo come luogo di cultura. Ed è dalla relazione che si instaura col pubblico all’atto della comunicazione, e nella risposta che si ha da parte del pubblico in termini di riconoscimento del valore del bene che si attua il circolo virtuoso della valorizzazione.  

Un museo muto è anche un museo che non si promuove, che non pubblicizza se stesso al di fuori delle sue mura, che non attira il pubblico ad entrare. Fermo restando che è necessario prima di tutto rendere fruibile e quindi comprensibile il percorso museale se si vuole invitare il pubblico ad entrare, la promozione di sé è un’operazione che un museo, soprattutto se piccolo o se oscurato da altri musei ben più noti nella stessa città, deve mettere in conto. Per farlo, è oggi più che mai necessario mettersi al passo coi tempi, sfruttando canali che ancora in molti purtroppo considerano frivoli passatempi, ma nei quali invece è racchiuso il futuro della comunicazione: parlo dei social media e della comunicazione online, che giorno dopo giorno sta coinvolgendo anche chi si occupa di cultura, nell’ottica non soltanto di autopromuoversi, ma di interagire con gli utenti. Nel caso dei musei, infatti, gli utenti che si interfacciano online attraverso i social media sono potenziali visitatori, oppure visitatori che vogliono restare aggiornati sulle attività del museo e che potrebbero essere intenzionati a tornarvi. I social media stanno aiutando a far vedere i musei non più come contenitori statici e chiusi di cultura, ma come organismi vivaci e vitali, capaci di coinvolgere i diversi tipi di pubblico e di farli diventare addirittura protagonisti dell’attività museale. Anche per la comunicazione online ci vuole una progettualità, né si può pensare di andare a tentoni per il solo gusto di dire che “il museo è social”, espressione che va tanto di moda ma di cui pochi conoscono davvero il significato. È però un fatto che la valorizzazione dei musei, intesa in questo caso come promozione, ormai passa anche dalla rete, e soprattutto dal web 2.0, nel quale si creano relazioni e interazione ad una scala mai vista, dove si possono coinvolgere direttamente gli utenti e creare partecipazione, sfruttando tutte le potenzialità della comunicazione.

Non entro nel merito dei contenuti del discorso di Antinucci – che poi sono ripresi pari pari dai suoi due volumi “Comunicare nel museo” e “Musei virtuali”. Sottolineo solo che Antinucci sta curando il riallestimento del Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano. Un riallestimento che, almeno per le prime realizzazioni che ci ha presentato, non è niente di esageratamente eclatante: poche soluzioni, in qualche caso ben riuscite, in qualche altro caso non così irresistibili. Ma quello che le rende buone è il lavoro di studio del pubblico e dei suoi comportamenti che è stato condotto all’inizio e che è parte integrante di quella progettualità che dovrebbe stare alla base di qualsiasi progetto di riallestimento, o di comunicazione, di un museo verso i visitatori. Una buona pratica di cui tenere conto. 

17 pensieri su “Il museo muto

  1. Una cosa che mi sarebbe sempre piaciuta vedere nelle vetrine dei musei, spesso davvero mute come dici, è il senso di rete non solo con il territorio ma anche con le istituzioni limitrofe.
    Oggi sarebbe sufficiente un codice QR accanto ad ogni oggetto, o posto come vetrofania sulla vetrina per “raccontare” la storia dell’oggetto esposto, e non solo, si potrebbe costruire appunto una rete di relazioni con siti e luoghi del territorio, con altre collezioni di istituzioni museali, per fare capire come quell’oggetto ha una sua collocazione e una sua storia, e come sia possibile approfondirla (eventuali riferimenti alla letteratura, al teatro, al cinema etc…).
    Ci dovrebbe essere secondo me anche coordinazione tra i vari musei locali.
    Mi è capitato spesso di vedere reperti pregevoli non contestualizzati, quando magari a pochi chilometri di distanza c’è l’area archeologica dalla quale provengono, perfettamente fruibile al pubblico.
    La tecnologia oggi effettivamente mette a disposizione possibilità di interazione notevoli.
    Perché non realizzare un progetto unificato, che coinvolga più realtà territoriali (senza necessariamente metterle in competizione tra loro) e che sia fruibile con modalità tecnologiche avanzate? L’esempio di un semplice QR che rimanda a contenuto multimediale remoto condiviso (con alcuni accorgimenti anche mediante “realtà aumentata”) potrebbe ridare vita, senza interventi eccessivamente invasivi, ad allestimenti museali “muti”.

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  2. Pienamente d’accordo con Mari e vivo apprezzamento per il post di Giuliano (bel video)

    Ieri sono stata a un seminario sugli archivi fotografici:
    http://www.fondazionevaldese.org/fondazionevaldese.php?codice=A500
    e uno dei relatori ha per l’appunto ricordato che i documenti, oltre a essere correttamente descritti e conservati, dovrebbero anche venir messi nella condizione di poter “raccontare le storie” che portano con sé.
    E soprattutto in questi tempi assai poco floridi, in cui i circoli virtuosi sono indispensabili per tutti.

    A proposito, a fine mese a Torino c’è un seminario in tema:
    Valorizzare gli archivi. Tra musealizzazione, didattica e comunicazione digitale, Torino, 22-23 marzo 2013
    http://www.anai.org/anai-cms/cms.view?munu_str=0_11_0_11&numDoc=358

    Se volete fare un salto su…

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  3. La triste verità di questo post è che per scriverlo non ho dovuto raccogliere cattive pratiche in giro per musei, ma mi è bastato guardarne uno solo. E vi assicuro che sono stata fin troppo buona…
    Giuliano ha ragione: gli archeologi non sembrano, o non vogliono, capire davvero che la comunicazione è un cardine della valorizzazione. Molti pensano in realtà che per il fatto stesso che il bene esista, ha di per sé un valore, per cui fanno questioni su quanto sia improprio usare il termine “valorizzazione”! Quello che non capiscono è che il valore un bene lo ha in relazione a come viene percepito da chi vi si imbatte, il quale deve avere o ricevere gli strumenti utili per percepirne il valore.
    Avevo già apprezzato il tuo post sul lavoro a Palazzo Branciforte, perché vedo che buone pratiche ne esistono e potenzialmente ne potrebbero esistere sempre di più: solo, ci vuole la volontà da parte di chi decide di buttarsi in un’operazione che abbia come scopo davvero la comunicazione.
    Ricco di spunti anche il suggerimento di Ivan: mettere in relazione la collezione museale con il territorio, facendo rete con gli altri musei. Ahimé una proposta come la tua tira in ballo questioni burocratiche che paiono insormontabili: mi viene in mente un esempio che conosco perché vi ho lavorato qualche anno fa: il museo civico archeologico di Ventimiglia (IM) ospita reperti provenienti dagli scavi ottocenteschi condotti nella città romana di Albintimilium, la quale è un’area archeologica statale con annesso antiquarium. Bisognerebbe chiedere a Stefano Costa (@stekosteko) se la situazione è cambiata, ma all’epoca (parlo di 5 o 6 anni fa) chi visitava il museo lamentava la difficoltà a visitare l’area archeologica che aveva orari tutti suoi e molto molto ridotti. Riuscivano nell’impresa, forse, giusto le scuole, che avendo organizzato la loro gita anticipatamente potevano riuscire a mettere insieme entrambe le cose. Questo per dire che spesso e volentieri i musei e/o le aree archeologiche che insistono su uno stesso territorio e raccontano in modi diversi la stessa storia sono amministrati da enti diversi, che difficilmente trovano o cercano un accordo.

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  4. Sì ho visto molte realtà un po’ abbandonate a sé stesse. Capisco che la funzione principale di un’istituzione museale sia la conservazione dei beni, e solo in seguito l’esposizione al pubblico, però effettivamente… vetrine di tipo “ottocentesco” con reperti ammassati e senza indicazioni, oggi appaiono un po’ anacronistiche.
    Io penso, ma la butto lì, che chi è giovane, ed è capace e soprattutto è mentalmente aperto dovrebbe provare a mettersi un po’ in gioco e fare un po’ di sperimentazione (tramite associazionismo o piccole cooperative); se un progetto, magari provato nel piccolo contesto, avesse successo, poi probabilmente trascinerebbe dietro a sé iniziative analoghe e reazioni da parte delle istituzioni.
    Questo però sempre ricordando che si deve agire per il pubblico e non per aumentare l’incasso, altrimenti si innesta una spirale che poi porta al degrado (tipo le grandi mostre spettacolo per fare cassa) e non alla valorizzazione. Io non sono archeologo però da anni lavoro nel marketing web, quindi conosco molto bene il potenziale degli slogan e l’ambiguità delle sirene della comunicazione. Non è un caso che da corsi di filosofia della mente e neuroscienze cognitive si sfornino a raffica dei professionisti della persuasione.
    Ovviamente però sono troppo ottimista e idealista, quindi sono più che convinto che anche queste argomentazioni siano del tutto anacronistiche in questo momento storico. Mi fa però piacere vedere che ci sono molte intelligenze attive, spero solo che vadano nella giusta direzione (a ognuno spetta trovarsela)… e comunque esempi di buona gestione mi pare che ce ne siano fortunatamente.

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  5. D’accordo su tutto. Vorrei solo aggiungere una mia opinione personale sulla mancata importanza data alla comunicazione dagli archeologi.
    Dalla mia esperienza personale avverto che qualcosa sta cambiando, nel senso che molti si sono accorti che senza un’adeguata comunicazione non si va lontano. Ma da qui a fare comunicazione efficace il passo è enorme e lo è, tra gli altri, per due fattori principali: chi ha fatto archeologia senza dedicarsi al pubblico non ha il know-how sufficiente per soluzioni innovative e anche i giovani magari sanno utilizzare meglio le nuove tecnologie ma anch’essi non sono formati sul come si comunica, mancando corsi specifici all’interno dei curricula universitari di archeologia.
    In secondo luogo, nonostante a grandi linee se ne è compresa l’importanza, manca la volontà di fare comunicazione. Si preferisce fare la propria ricerca archeologica come la si è sempre fatta, pubblicarla e magari presentarla a convegni specialistici. Fare comunicazione per un pubblico più ampio è un’attività che richiede, oltre che un’adeguata preparazione, molto tempo (tanto più per i musei) che ovviamente è tempo tolto alla ricerca. Il problema è l’archeologo il tempo speso nella comunicazione lo considera sprecato mentre non dovrebbe essere così.
    Non ci si può aspettare (e non si può aspettare) che la proposta di fare comunicazione venga dall’alto, devono essere gli archeologi più interessati al tema/più giovani a proporla. Così ne può uscire qualcosa di buono, almeno dopo l’esperienza degli ultimi giorni la penso così (http://museoarcheologicomarche.wordpress.com)

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  6. Sono completamente e pienamente d’accordo con tutto quello che hai scritto (tanto è vero che, a distanza, abbiamo dato quasi lo stesso titolo ai nostri post: http://leparoleinarcheologia.wordpress.com/2013/02/21/la-sfida-il-museo-parlante/).
    Rendere consapevoli le istituzioni culturali, i dirigenti e i suoi dipendenti che riempire una sala di vetrine colme di reperti affiancati da una didascalia minuscola e sbiadita dal tempo non è degno di un museo che si rispetti, che scrivere ‘zoomorfa’ o ‘tetrastilo’ non è segno di professionalità, che lasciare che il visitatore “esplori” le varie sale senza delle indicazioni crea disinteresse e a volte sconforto, sarebbe già un bel passo in avanti.
    Per non parlare poi della comunicazione on line! Come può un museo che non riesce a raccontare le storie che custodisce, riuscire a raccontarsi alle persone che non lo hanno ancora visitato?
    Non ha senso per un ente avere un profilo su un qualsiasi social network se lo si utilizza o lo si concepisce come una ‘vecchia’ mailing list. Perché dovrei seguire il Museo Tal dei Tali se non mi tiene aggiornato sulla sua attività, non mi coinvolge nella sua attività e non mi dà la possibilità di interagire con lui?
    Non basta un profilo social per essere social.
    Così come non sono strettamente necessarie le ricostruzioni virtuali, i filmati 3D e l’Augmented Reality. Basterebbero dei percorsi tematici accattivanti, un sistema di pannelli informativi semplici e ben scritti, immagini esplicative e pochi altri accorgimenti.
    Però proprio non si riesce ad uscire dalla mentalità fine settecentesca dei gabinetti di meraviglie per cui un’accozzaglia di antichità debbano generare estatiche reazioni dei visitatori.
    Le persone che come me tutte queste cose le hanno capite ci sono e spero che presto le cose cambino.

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  7. @Alessandro
    ” non è degno di un museo che si rispetti, che scrivere ‘zoomorfa’ o ‘tetrastilo’ non è segno di professionalità ”
    Intendi, se ho capito bene, che occorre semplificare il linguaggio?
    Ecco io su questo punto non sono d’accordo.
    Ogni ambito scientifico ha ovviamente il suo linguaggio gergale, indispensabile per poter avere dei riferimenti comuni e condivisibili, in un contesto di scienza, quindi ok, è altra cosa rispetto al linguaggio comune e non è certamente indicato per la divulgazione.
    In passato, immaginando una dimensione “offline” del museo poteva essere così, pensare ad una pannellistica adeguata era (ed è) sufficiente a comunicare in modo più aperto e diretto al pubblico.
    Ma vorrei però fare presente una cosa. Le nuove tecnologie (secondo me ancora più importanti della realtà social, che oggi è più che altro una moda con implicazioni non del tutto chiare) permettono di muoversi su più livelli contemporaneamente; quindi di lasciare intatto il livello “scientifico” della comunicazione (le terminologie corrette – che non sono cose “stantie” ma cultura scientifica, ed io come fruitore non addetto ai lavori, vorrei che potessero essere per me accessibili) e di affiancare il livello divulgativo.
    La realtà aumentata non è poi un “giocattolo”, ma è indubbiamente il futuro, e sarebbe bene cominciare a comprenderne le potenzialità, che secondo me sono molto-molto sottovalutate in questo ambito.
    Sperimentare le nuove tecnologie significa intuire e mettere in pratica cose nuove. La tecnologia ci permette di superare il limite fisico di una stanza, la quantità di caratteri e parole da mettere su un pannello, e nuove tecnologie ci permettono di operare su più livelli comunicativi ed anche, e non andrebbe sopravvalutato, di fare interagire l’utente con gli oggetti reali, muovendosi però in un contesto, i cui parametri sono stati resi potenzialmente infiniti o determinabili a piacere… non è come aprire un DVD e guardare un filmato.
    Per questo io rimango contrario all’idea di utilizzare queste tecnologie secondo modalità che IO identifico nel marketing, perché il marketing, come concetto, è intrinsecamente legato ad un concetto di mercato, di commercio, di persuasione, e non è quindi uno strumento “neutrale”.
    Lavorare per il “pubblico” significa invece non privarlo di una dimensione culturale (quella scientifica in questo caso), ma mettergli tutto a disposizione, su più livelli, permettendogli di approfondire e apprendere… e se vuole di capire.
    Per questo io ritengo che sia fondamentale il VOSTRO lavoro; non guardate con troppa ammirazione a chi studia come meglio entrare nella mente delle persone, come creare bisogni (spesso fittizi) o come solleticare il lato emozionale (ben più potente e ricettivo di quello razionale).
    Certo, occorre poi imparare a divulgare, e questo non è facile, occorre prepararsi e sicuramente non tutti gli archeologi (pur se preparati) sono in grado di fare divulgazione… quindi anche interdisciplinarietà… ma tenere la mente aperta…
    Mi scuso se mi sono intromesso in realtà che non mi competono, ma spero di avere almeno seminato un po’ di dubbi in alcuni di voi… io sicuramente imparerò molto continuando a seguire il vostro lavoro.

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  8. Caro Ivan, i tuoi commenti e le tue considerazioni sono utili tanto quanto quelle degli ‘addetti ai lavori’ soprattutto perché se siamo arrivati a questo punto è stato anche perché in passato non sono state ascoltate le istanza dei non addetti ai lavori. L’autoreferenzialità è una brutta bestia in tutti i campi!
    Sì, intendevo sottolineare la necessità di un linguaggio semplice. Secondo me esistono diversi livelli linguistici all’interno di un museo che andrebbero diligentemente distinti: il livello ‘base’ utilizzato per la pannellistica (in cui si scrive – seguendo l’esempio del mio precedente commento – ‘a forma di animale’, ‘formato da 4 colonne’), il livello ‘medio’ utilizzato per le pubblicazioni divulgative da book-shop (in cui si scrive ‘zoomorfa’, ‘tetrastilo’) e il livello ‘alto’ utilizzato per le pubblicazioni scientifiche specialistiche (in cui si scrive ‘fregio romanico zoomorfo’, ‘tempio doppiamente in antis, periptero esastilo’).
    Lungi da me pensare che la terminologia scientifica andrebbe rimpiazzata con un livello linguistico basilare. Penso che anche in una dimensione online, tutti questi livelli dovrebbero convivere senza escludersi a vicenda.
    Non ho mai considerato la realtà aumentata o le nuove tecnologie come “giocattoli”, sono strumenti potentissimi e validi. Volevo solo porre l’accento su come queste tecnologie vengono percepite. Non basta un QR code per rendere un museo ‘comunicativo’, non basta un filmato 3D per ‘raccontare le storie che il museo contiene’. A volte – per esperienza e per conoscenza – si preferisce investire un intero budget destinato alla comunicazione per la realizzazione di una ricostruzione virtuale potendo invece, con la stessa cifra, ripensare e riorganizzare l’intero sistema comunicativo offline e online dell’istituzione museale.
    Non le ho mai considerate tecnologie accessorie, ma in alcuni casi sorgono come ‘maestose cattedrali nel deserto comunicativo di una sala del museo’.
    Pensa quante potenzialità ci sono nell’abbattere virtualmente le pareti di un museo e permettere al visitatore (tramite una qualsiasi periferica) di osservare il reperto all’interno del suo contesto originario!
    Penso che nessuno di noi voglia ‘convincere’ il pubblico che ha bisogno di cultura o che ‘deve’ visitare un museo (anche perché dalle esperienze scolastiche sappiamo che una cosa imposta è una cosa che non ci piace), ma che se ne sentirà il bisogno, se vorrà visitarlo, farà un’esperienza, vedrà cose che non ha mai visto e capirà cose che prima non aveva mai provato a capire. Poi potrà anche approfondire, appassionarsi e continuare a seguire le attività del museo; magari si sarà talmente tanto appassionato che tornerà ad ogni nuova mostra e ogni volta porterà con sé un numero di persone maggiore.
    Insomma, vorremmo appassionare le persone e non convincerle.
    Io ho studiato da archeologo e ora sto studiando da comunicatore; la formazione, l’interdisciplinarietà e l’aggiornamento sono l’unica guida per chi vuole percorrere questa strada.

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  9. Come frequentatore di musei mi trovo d’accordo su quanto viene discusso sopra, il museo della mia città in particolare credo vincerebbe diversi premi per la pessima gestione e fruibilità, questo prima che delle infiltrazioni d’acqua alcuni mesi fa lo costringessero a chiudere definitivamente.
    Venendo al dunque, da diverso tempo, ma specialmente negli ultimi anni, alcuni musei hanno stretto collaborazioni con gruppi di living history ed artigiani, che organizzano spettacoli e mettono in mostra ricostruzioni fedeli di reperti archeologici. Piuttosto che vedere i soliti “pezzi di ferro arrugginiti” (passatemi il termine) all’interno di una vetrina, il visitatore può vedere gli originali ricostruiti per farsi un’idea più chiara di come fossero, come venissero utilizzati ed in quale contesto. Specialmente i più piccoli, notoriamente annoiati durante le visite ai musei, sono invece interessati quando l’oggetto gli viene messo in mano o comunque presentato nel modo più realistico possibile. Quando faccio dimostrazione di come si accende un fuoco con acciarino e selce, dovreste vedere le facce dei bambini quando iniziano a vedere il fumo e le prime fiamme, sono affascinati e rapiti, probabilmente quell’esperienza gli rimarrà più impressa proprio perché suscita in loro emozioni e stupore.
    Nel nord europa ci sono musei nei quali entrandoci sembra di essere dentro di una capanna vichinga, le teche sono ricavate all’interno delle pareti, persino l’arredamento richiama lo stile dell’epoca.
    Secondo la mia opinione potrebbe uscirne qualcosa di interessante se si focalizzasse un pò di attenzione su questo aspetto della divulgazione storica, cosa che per esempio Alberto Angela e suo padre hanno iniziato a fare già da alcuni anni, integrando ampi momenti di ricostruzione nelle loro trasmissioni.

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  10. mi reinserisco in questa lunga discussione perché credo che sia stato toccato un punto fondamentale: quello delle competenze. Come si creano le competenze per la comunicazione? E come si valorizzano? Nel mio mondo, il mondo universitario (sui bbcc), ovvero il luogo deputato alla formazione delle nuove professionalità, concetti come la capacità di scrivere, raccontare, divulgare, spiegare, comunicare sono più rari del più raro dei ritrovamenti archeologici. La formazione è orientata solo a creare nuovi ricercatori, nuovi specialisti della conoscenza. E se è vero che qualcosa sta cambiando questo non sembra interessare minimamente l’accademia. Si ripropongono insegnamenti e programmi che ignorano apertamente la richiesta di rinnovamento che parte dai giovani. E non si pensa a quello che gli studenti faranno dopo la fine del loro percorso universitario.
    Nei miei corsi cerco di insegnare l’importanza dei linguaggi e della creatività per la comunicazione dei bbcc, ma mi scontro con un disinteresse generale o un’attenzione esclusiva alle tecnologie, come se fossero queste la soluzione a ogni problema. Eppure continuo ad essere convinto che insegnare a raccontare i bbcc sia il vero punto di svolta per aprire nuovi scenari di sviluppo in questo settore.
    http://www.passatoefuturo.com

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  11. @Alessandro
    Siamo abbastanza in sintonia, anche se io sarei più radicale in certe scelte.
    Comunque è vero che questo è un momento molto difficile, tragico per certi aspetti, però io vedo anche molte possibilità per voi giovani; ci sono potenzialità interessanti che la tecnologia comincia ad offrire (non era così anche solo cinque anni fa), e occasioni da cogliere per sperimentare e creare qualcosa di veramente nuovo… pur concentrandosi a curare il presente, con le sue risorse e priorità limitate (il bagno di realtà). Questo periodo mi ricorda molto la fine degli anni ’90, quando c’era assoluta diffidenza da parte degli addetti ai lavori ad aprirsi alla realtà di internet. Ci sono tempistiche che evidentemente non è possibile forzare… spetta a voi darvi da fare, ma lo sapete meglio di me, e immagino che l’interesse e l’attenzione che incontrate nelle persone intorno a voi sia di stimolo.

    @Daniele
    Sì sono tutte esperienze interessanti. Ci sono realtà come il CCSP che stanno facendo cose interessanti. Il problema è che poi tutto questo viene spesso vanificato (e tagliato) nel processo educativo scolastico, e non per colpa dei docenti, ma per scelte politiche ben precise.

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  12. Questa discussione è tutta molto stimolante ma in particolare mi trovo totalmente d’accordo sul rischio, ben sottolineato da Alessandro, del ricorrere alle tecnologie e alle ricostruzioni (virtuali o meno) con lo scopo di catturare il pubblico, del quale evidentemente non se ne conosce i bisogni e le modalità di fruizione culturale, e finendo invece per creare ‘maestose cattedrali nel deserto comunicativo di una sala del museo’. Questo purtroppo, bisogna dirlo, avviene spesso anche per mano degli accademici, ed in particolare degli archeologi, che per costruirsi delle vetrine autoreferenziali del proprio operato vestono i panni del museologo, dell’allestitore e dell’esperto di comunicazione museale, cercando ingenuamente lo spettacolare che dura il tempo del taglio del nastro e la durata dell’ennesimo touchscreen. Mi ricollego e ritrovo la mia esperienza in quello che denuncia Luciano circa il fallimento dei percorsi universitari in cui molti di noi sono cresciuti e sulla necessità di fornire nuove competenze. Riporto ad esempio la mia esperienza che mi ha condotto, dopo l’abbandono (per motivi di sopravvivenza!) del mondo accademico e dell’archeologia, a ripensare a 30 anni il mio profilo lavorativo. Solo fuori da questo mondo ho avuto il modo di avvicinarmi alla comunicazione multimediale, al web design e al web 2.0 applicato al patrimonio culturale e solo in un corso della facoltà di economia, evidentemente più aperta e non chiusa su se stessa come quelle di bb.cc e simili, ho imparato tantissimo sul ruolo pubblico e sociale dei musei e sulla gestione efficace e efficiente dei suoi servizi. Ha ragione Luciano quando dice che bisogna imparare a raccontare ma soprattutto, dico io, porsi all’ascolto della collettività attraverso gli strumenti del web 2.0 e imparare a lasciare il controllo perché quest’ascolto porti a rendere i musei non solo comunicativi ma accessibili culturalmente e socialmente, partecipativi, utili, insomma social nel senso di sociali.
    Questo è quello che vorremmo riuscire a fare o meglio del quale vorremmo riuscire a far capire l’importanza con un progetto (mio e di una mia amica e collega) che è stato appena finanziato nell’ambito del progetto pugliese “Principi Attivi” che riguarderà i musei nella Provincia di Lecce.
    Inoltre, proprio perché l’ “accademia” in tutto questo non ci ha per nulla aiutato, con un gruppo di associazioni amiche ci stiamo auto-costruendo un mini percorso formativo in cui imparare a fare marketing culturale innovativo, strategie di comunicazione integrata, storytelling ecc. per il settore culturale. Insomma non volevo farmi pubblicità ma penso che tutto ciò sia la dimostrazione pratica di molti vostri interventi e soprattutto volevo invitare tutti voi, leggendo spesso i vostri blog, a seguire il nostro percorso e sostenerci con idee e magari anche suggerimenti o rimproveri 😉 per fare al meglio tutto ciò. Inoltre già vi annuncio che nel nostro progetto ci sarà anche una sorpresa per i giovani blogger del settore.

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  13. @chiara Per la virata che stanno prendendo i miei interessi in questo momento la tua attività mi incuriosisce e molto. Personalmente sto studiando da autodidatta le possibili tecniche di comunicazione su social media per una loro applicazione pratica nell’archeologia e nei musei. Seguirò con interesse il tuo lavoro.
    Quanto a tutti voi che avete animato questa discussione, andando decisamente oltre le mie aspettative, vi ringrazio perché avete dimostrato una cosa molto importante, ovvero che siamo pronti perché si possa fare effettivamente qualcosa di concreto per cominciare a cambiare le cose. Pur nelle differenze di opinioni, che per forza di cose ci devono essere, convergiamo tutti verso un unico indirizzo: le cose così non vanno, a noi sta la possibilità di cercare di cambiarle. La comunicazione è l’aspetto probabilmente più importante del nostro lavoro: è in questa direzione che dobbiamo dirigere tutti i nostri sforzi. Spesso sarà, ed è già, una lotta contro i mulini a vento di un sistema cristallizzato che si crogiola nella cronica mancanza di fondi e di personale, ma non dobbiamo lasciare nulla di intentato. La situazione è dura, disastrosa anche, ma trovo che sia già positivo il fatto che tutti noi che qui ne parliamo, nel nostro piccolo facciamo qualcosa per migliorare. E non è poco. Per niente.

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  14. E’ un vero peccato che tu non sia riuscita ad esporre il tuo intervento, l’ho trovato davvero ricco di stimoli e di spunti di riflessione…

    Grazie!

    Grazie anche alle repliche al tuo post, mmmmmolto interessanti!!

    ;o)

    .G

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  15. Arrivo (molto) in ritardo a commentare questo post, ma ci tenevo comunque a ringraziare Marina per l’intervento, molto interessante, e le repliche, altrettanto ricche di spunti.
    Concordo che l’uso di nuove tecnologie e certe ricostruzioni virtuali spesso tende a rivelarsi una “cattedrale nel deserto”, come hanno ribadito in particolare Alessandro e Chiara; non tanto per la tecnologia in sè (che se ben utilizzata, è un’utile risorsa), ma perchè si delega a quest’ultima tutta la “comunicazione”, ignorando che il concetto di comunicazione museale (e non), come scritto da Marina, va ben al di là di ciò e comprende un ventaglio molto più ampio di aspetti e una ben più profonda comprensione delle esigenze del pubblico.
    In quanto al problema della formazione, purtroppo in Italia dobbiamo ancora imparare tantissimo, soprattutto dai paesi anglosassoni. Fino a pochi anni fa, solo una manciata di corsi di archeologia (qualcuno in più a conservazione, mi sembra) includevano un esame di museologia, per non parlare delle idee dell’archeologia pubblica – totalmente inesistenti. Purtroppo finchè non si diffonderà l’idea che se non riusciamo a coinvolgere il pubblico nella nostra passione per questa disciplina, difendendo solo in un gergo incomprensibile le esigenze dei beni culturali difficilmente potremo poi contare sul sostegno dello stesso pubblico nella nostra attività e nella tutela del nostro patrimonio.

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  16. Approfitto del ritardo di Chiara per agganciarmi alla discussione, o meglio per rispondere alla domanda che Marina mi ha rivolto riguardo agli orari di apertura a Ventimiglia e da quelle fare alcune considerazioni. Purtroppo la situazione è rimasta la stessa – ed è già positivo considerato che il personale è dimezzato rispetto ad allora – siamo aperti 6 giorni al mese, anche se per le scuole apriamo su prenotazione anche in settimana.

    Su questa base come si deve pensare e progettare la comunicazione? Io trovo che i social media siano un inutile gadget in questo caso (@albintimilium esiste già da un po’ ma è una mia iniziativa personale, non usato di fatto), se non in occasioni specifiche e limitate nel tempo (es. Wiki Loves Monuments). Guardo il numero di visitatori: nelle giornate di apertura “normali” (escludendo Capodanno, 25 aprile, 1 maggio, Settimana della Cultura, GEP, etc) il numero è sempre molto basso. La differenza? Secondo me in parte è dovuta al fatto che si passi dalla stampa locale, in parte dal pubblico che si aspetta che i luoghi della cultura siano aperti in queste occasioni. Ma sto parlando solo di come portare i visitatori alla porta di ingresso.

    Dentro il museo, fondamentalmente si svolge uno stanco allestimento di “museo della civiltà romana” uguale in tutta Italia, in cui a tratti il sito archeologico circostante sembra un accidente e non la causa prima. Vogliamo (a partire dal direttore) cambiare questo allestimento, rendere il sito più comprensibile … ma è museologia 1.0 e la tecnica secondo me è veramente un dettaglio. Sarà anche che Ventimiglia è una città molto piccola e quindi l’ascolto e il rapporto con il pubblico potrebbe essere molto im-mediato. Sarà che non mi piacciono i tweet/post usati in modalità binaria (mugugno vs BELLISSIMO!!1!!!1)…

    Forse è un po’ noioso dirlo, ma c’è un bellissimo documento, il D.M. 10 maggio 2001, in cui non si parla molto esplicitamente di questo tema, ma ho l’impressione che chi attua quelle linee guida sia quasi automaticamente sulla buona strada. Con questo voglio dire che per una istituzione che funziona bene sarà molto più facile rispondere alle istanze di rinnovamento e cambiamento nei linguaggi. Gli strumenti organizzativi e amministrativi esistono (carte dei servizi, sistemi di controllo – non certificazione – della qualità, comitati di gestione, associazioni culturali).

    Per fortuna a Ventimiglia non ci sono edifici di culto, altrimenti ne avremmo certamente anche noi uno tetrastilo

    @stekosteko

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