Cosa ho imparato su “I Social Media per la Cultura” a Firenze

Mercoledì 27 febbraio 2013 ho assistito al workshop “I Social Media per la cultura. Una risorsa per la crescita” tenutosi a Palazzo Strozzi a Firenze. Non sto a fare un report dell’evento, che potete leggere sul blog del Museo Archeologico Nazionale di Venezia, ma approfitto di questo spazio per esprimere alcune mie riflessioni sorte a seguito dell’evento.

social media cultura

I relatori del workshop “I social media per la cultura”. Credits: Flod

Da blogger attiva sui social network – in prima persona su twitter – non posso non essere interessata ad approfondire il tema dei social media per la cultura: è da quando scrivo sui blog di archeologia che sono assolutamente convinta dell’importanza di seguire l’evoluzione della comunicazione online, che va molto più veloce di quanto possiamo immaginare. Da autodidatta quale sono, quello che finora ho imparato sui social media, sulla comunicazione online, sulla reputazione online mi è stato senza dubbio prezioso, ma non è sufficiente. Così, dato che sono un’archeologa che avrebbe la pretesa di parlare di comunicazione archeologica, ma che non ha una formazione in materie di comunicazione, posso solo aggiornarmi con ciò che la rete mi propone. La mia attuale esperienza col museo archeologico di Venezia mi ha dato lo stimolo ulteriore per approfondire l’argomento. Il workshop mi ha invece fatto notare quanta strada devo ancora fare per potermi definire un’esperta di social media per la cultura.

Per questo, più che il racconto delle buone pratiche o semplicemente delle esperienze nel ramo relative a Florens2012, a Fabbrica Europa, al Maggio Musicale Fiorentino e a Palazzo Strozzi, ho apprezzato tantissimo l’intervento di Andrea Maulini, che ha fatto una vera e propria lezione sulla social media communication, a partire dal sempre valido e sempre attuale Cluetrain Manifesto, passando a toccare il marketing virale, che non è una brutta malattia ma un fenomeno necessario al funzionamento del web marketing. Quindi ha fornito consigli pratici a chi gestisce pagine facebook di promozione culturale (come può essere quella del Museo Archeologico Nazionale di Venezia): less is more, innanzitutto: testi chiari, concisi, essenziali e comprensibili, immagini ben definite e video brevi e d’effetto. Ci spiega quali social network utilizzare per la cultura e con quale finalità: posto che Facebook, Twitter, Youtube sono importanti, mentre Instagram, Pinterest e Foursquare sono potenziali, la mappa di un sistema social si configura in questo modo:

mappa sistema social, social media

La mappa di un sistema social. Rielaborazione di una slide di A. Maulini

Gli altri relatori del workshop hanno enunciato vari concetti che mi trovano d’accordo e che riporto velocemente: M. Brighenti di Fabbrica Europa dice che l’interazione con il pubblico è centrale e che la comunicazione 2.0 dev’essere un mezzo e non un fine, deve poter creare un ponte; idem G. Vitali del Maggio Musicale Fiorentino, che vuole sfruttare i social media per portare a teatro una fetta di pubblico più giovane di quella che abitualmente frequenta la platea. Importante quello che dice E. Bettinelli di Palazzo Strozzi, che pone l’accento sul fatto che deve esistere un team interno all’ente di cultura che si occupi nello specifico della social media communication, personale dunque che abbia una professionalità e che sia pagato per esercitarla. Alexandra Korey enuncia gli elementi fondamentali di un engagement social di successo: conoscenza degli strumenti social e loro uso corretto, competenza sugli argomenti trattati, traduzione dei contenuti in un linguaggio adatto al mezzo, creatività e impegno giornalieri e infine, ultimo ma non ultimo, competenza linguistica per puntare ad un pubblico internazionale.

Ma è con ciò su cui ci fa riflettere Melissa Pignatelli, autrice del blog La rivista culturale, che trovo molti punti in comune con il mio pensiero (non per niente è una blogger culturale, che condivide con gli archeologi blogger quantomeno una formazione di base umanistica e un comune sentire per le tematiche di comunicazione): innanzitutto che la cultura va intesa come un sapere da trasmettere, e che blog e social media sono strumenti ai quali bisogna adattare contenuti di qualità. In questo modo chi in rete parla di cultura deve farlo avendo dimestichezza col linguaggio dei social, che è poi il linguaggio che conoscono le nuove generazioni, le quali guardano sempre meno la tv e non leggono carta stampata (le stesse parole che mi ha detto Alberto Angela, per capirsi). La Pignatelli parla a proposito dei social media come di una rivoluzione culturale analoga a quella che a suo tempo si verificò con l’invenzione della stampa da parte di Gutemberg. Ora, io non so verificare se quest’affermazione possa essere realistica o esagerata, perché le rivoluzioni culturali vengono percepite come tali solo dopo che si sono compiute definitivamente, ma di sicuro ciò che sta avvenendo da 10 anni a questa parte è un fenomeno che non può più essere trattato con snobismo e diffidenza: la democratizzazione dei media che tanto fa inorridire i vari Andrew Keen e Geert Lovink, ormai è un fatto talmente penetrato nel nostro comune sentire da sembrarci totalmente naturale. È naturale, ormai, che la gente comunichi attraverso i social network e i blog, ed è naturale, allora, che chi vuole comunicare attraverso questi strumenti, ne impari i linguaggi e  le leggi, per non venire scalzato fuori dal mercato (per usare un termine da Cluetrain Manifesto).

Melissa Pignatelli dice ancora una cosa, importante, che sposo alla grande: noi blogger culturali (infilo nella categoria i blogger di archeologia) abbiamo il dovere di diffondere cultura. Bisogna restituire in termini comprensibili i risultati delle ricerche che si fanno. Questo è valido non solo per l’archeologia, ma per tutta la Ricerca.

Tutto ciò mi è perciò di stimolo a perseverare nella mia formazione nel campo dei social media, non solo nel mio impegno di blogger da questo blog e dal mio account twitter personale, ma anche per far crescere e far fruttare l’esperienza con i musei archeologici, che oggi più che mai hanno bisogno di dialogare col pubblico, di ristabilire un dialogo e di comunicare i loro contenuti culturali. All’esempio del Museo Archeologico Nazionale di Venezia seguiranno nuove esperienze, che sarà bello poter mettere in rete. Il grande occhio del MiBAC nel frattempo sta guardando anch’esso ai social media… la rivoluzione è iniziata, ma bisogna essere bravi a cavalcarla e a farla con criterio. In bocca al lupo a chi si getta nell’impresa.

3 pensieri su “Cosa ho imparato su “I Social Media per la Cultura” a Firenze

  1. È molto interessante quello che scrivi anche perché poche settimane fa la possibilità di avere un sito web dedicato dell’area archeologica statale in cui lavoro è stata esclusa dal responsabile del sito web della Soprintendenza. Quindi mi fa piacere che il Museo Archeologico di Venezia abbia invece una propria voce. Evidentemente ci sono interpretazioni diverse delle direttive ministeriali in materia? O del grado di autonomia effettivamente concesso? Ho registrato qualche mese fa sulla scia dell’entusiasmo l’account Twitter @albintimilium ma non so che farne… mi piacerebbe poter dire ai visitatori “taggate le vostre foto su Flickr e Instagram con #albintimilium, così poi potremo usarle sul nostro sito” ma … non si può.

    Quello che mi piacerebbe capire è anche quale ruolo vogliamo dare ai social media. Io non sono convinto che possano essere soltanto uno strumento di marketing, in cui si forniscono “esche” per attirare il pubblico (la mostra, il reperto, l’evento) e si amplificano le reazioni (preferibilmente positive) del pubblico, ad esempio retwittando il visitatore che ci scrive quanto è bello il museo. L’equivalente “1.0” sarebbe mettere sulla facciata del museo i commenti sul registro visitatori con scritto “Bravi museo bellissimo. Guida molto gentile e competente. Da valorizzare”. Faccio riferimento al registro visitatori anche per un altro aspetto, cioè la memoria: per quanto anacronistico e incompleto, è qualcosa che rimarrà nel tempo. Cosa rimarrà tra qualche anno dei tweet del nostro museo e del nostro gruppo Facebook? Se la comunicazione è veramente importante dobbiamo trovare anche un modo per conservarla, preferibilmente senza che perda il proprio carattere dinamico e “dialogico”. E qui vengo al secondo punto, cioè il dialogo. Se già è relativamente difficile usare i social media in modalità “broadcasting” nei nostri musei (per motivi burocratici, culturali o tecnici), come possiamo farli diventare un vero e proprio canale di comunicazione tramite il quale il pubblico ci possa anche dire “questo non mi piace”, “vorrei più attenzione per i bambini”, “gli orari di apertura sono ridicoli” e così via. Insomma secondo me non possiamo pensare che aprirci alla rete sia solo un modo per avere dei vantaggi, anche se nel bombardamento social la peggiore reazione possibile è quella di essere ignorati… io trovo interessante l’idea del “check-in social” (tipo Foursquare o Google Places), e fare in modo che le persone possano “gareggiare” per essere prime in un museo o altro luogo della cultura (“luogo della cultura”, ma come scrivo?)

    Poi secondo me saremo sempre con le mani legate finché sarà vietato fotografare dentro i musei, ma questo è un altro discorso (o forse no?).

    "Mi piace"

  2. Rispondo per punti:1) La questione dell’utilizzo dei social media nei luoghi della cultura (sì, ormai li chiamo anch’io così!) statali da quello che vedo è lasciata alla libera sensibilità e volontà del direttore o di chi per lui. Non esiste ancora a livello centrale una direttiva, anche se la direzione generale per la valorizzazione è molto lanciata in tal senso (pur con le pecche che abbiamo visto recentemente, come il famoso questionario su base nazionale cui hanno risposto 7000 persone…).2) Poni un gran problema in effetti sul “cosa resterà” tra qualche anno: niente probabilmente, a meno che non esistano da qualche parte degli archivi (per i tweet se non sbaglio esiste già) dove salvare il tutto. Ma per come la vedo io in questo momento l’utilizzo dei social media dev’essere funzionale al museo/area archeologica/ecc non solo per attirare pubblico, ma per dialogare con esso, uno strumento anche solo a cui rivolgersi per chiedere informazioni.3) Un problema che a me sta molto a cuore è anche il fatto che sì, ci si può lanciare sui social media ed essere “all’avanguardia” da questo punto di vista, ma a che serve curare gli aspetti 2.0 se il museo 1.0 è fisicamente non accogliente? Se ha un fisico allestimento incapace di comunicare col pubblico reale, che me ne faccio di un’aggiornata faccia social, cui non corrisponde nulla? Questo problema mi sta particolarmente a cuore, visto che vorrei adottare lo stesso metodo di Venezia su Firenze (ammesso che me lo facciano fare…) e visto che il museo di Firenze non brilla per accoglienza e comunicazione al pubblico.3) Il problema delle fotografie nei luoghi della cultura è centrale: prima si risolve questa questione e meglio è, ma anche lì occorrerebbe una direttiva da parte della direzione generale per la valorizzazione, che probabilmente non ha ancora capito che la cosa che la gente ama condividere di più sono le esperienze, dunque le immagini, più che il pensiero in sé. Musei che non si pongono questo problema ce ne sono, anche in Italia, e basta guardare il Museo di Palazzo Madama a Torino per vedere che le immagini si possono utilizzare.La mia esperienza con Venezia, e il mio approccio al tema dei social media per la cultura è ancora molto in progress, ma credo fortemente in questa cosa, perché non è solo marketing, ma è apertura. Apertura di istituzioni spesso ancora sentite come chiuse, ferme e noiose. Come dicevo, l’esperienza “social” deve andare di pari passo con un’accoglienza fisica del visitatore degna di questo nome, sennò di che stiamo parlando? Ma non sarebbe male se le due cose andassero di pari passo, se l’approccio 2.0 potesse influenzare positivamente il museo 1.0…

    "Mi piace"

  3. L’articolo di Marina è interessante, come immagino sia stato molto interessante il Workshop, e mi ritrovo anche nel commento di Stefano. Volevo approfondire alcuni punti, che non vogliono però rappresentare una critica a realtà esistenti, questo perché non le conosco a sufficienza per poter esprimere dei giudizi. La mia è più che altro una riflessione generale e generica sul metodo.
    Il marketing pur nella sua complessità agisce con modalità piuttosto semplici: individua pochi punti essenziali e, con strumenti che giocano in primo luogo sul lato emozionale dell’individuo (intelligenza), opera come una leva in grado di condizionare – spesso determinare – il giudizio (l’opinione) delle persone. Nella pratica, il marketing allarga il “target” e apre un mercato e questo lo si ottiene in definitiva omologando il linguaggio verso il basso, e provocando reazioni emotive.

    Sulla “democraticità” dei media in questione io poi avrei molti dubbi, è molto facile, esattamente come per il mezzo televisivo, intervenire a testa bassa e influenzare “tendenze” e operare condizionamenti. La “libertà” non è nello strumento di comunicazione che si utilizza, ma negli “strumenti” che si possiedono.
    Tutto questo mi serve per introdurre meglio il mio punto di vista.
    Io penso – e temo – che in questo momento storico ci sia l’interesse a trasformare la “cultura” in un mercato, intendiamoci, questo è già stato fatto con la cd. “cultura di massa” tramite il mezzo televisivo; credo che ora si stia cominciando a guardare con attenzione anche alle istituzioni culturali più importanti e, direi, strategiche di un paese (monumenti, musei, istituti etc…) – e non tanto e non solo per generare profitti, quanto per consolidare una modus vivendi collettivo.
    Il problema della Cultura non è tanto, secondo me, il rimanere indietro nell’utilizzo dei nuovi media (certe istituzioni sono sopravvissute intatte allo strapotere della televisione), ma passare da un finanziamento statale (nostro) alle leggi del mercato e del profitto. Interessare un “ragazzino” di 15 anni ad una visita fugace ad un museo, ad un’area archeologica o ad una mostra, non serve a nulla se poi a quel ragazzino lo Stato ha rinunciato a fornire quegli strumenti culturali in grado di renderlo davvero libero; quel ragazzino diventerà per lo più un “consumatore” di cultura e non un fruitore. Il ricatto è semplice: i soldi non ci sono (e io credo che non sia vero) e quindi le “istituzioni” culturali devono nel migliore dei casi autofinanziarsi e nel peggiore, mettersi sul mercato. Penso che sia inutile aggiungere che gli operatori economici non sono dei “mecenati”, e che si arriverà con modalità sempre più subdole a condizionare nel profondo la cultura delle nuove generazioni.

    Che cosa c’entrano in tutto questo i media sociali in rete? Io lascerei rispondere Pasolini: http://www.pasolini.net/saggistica_scritticorsari_acculturazione.htm
    Ci sono differenze evidenti, la televisione non è la rete, non esiste una comunicazione unidirezionale, la realtà dei social è molto più complessa, ma se lo Stato come rappresentazione più elevata del cittadino rinuncia a proteggere e difendere la Cultura, quella “democraticità” apparente si rivelerà ben presto, secondo me, come concretizzazione di una distopia più volte preconizzata dai vari Dick, Orwell, Bradbury. Tagliare fondi alla Cultura e all’istruzione, significa costruire una società di schiavi che vivranno nell’illusione di essere liberi. Se non si risolvono alla radice le cause del “declino” della cultura, utilizzare i nuovi media e soprattutto affidarsi al marketing (che è per sua natura persuasione e non comunicazione) rischierà di accelerare il processo di degrado e non di invertirne la tendenza.

    Questo non significa NON USARE i social media, ma interrogarsi su quali siano le cause reali in primo luogo e poi discutere su come riportare la Cultura al centro della società. Tutto questo è molto difficile, come è difficile riuscire a capire come muoversi per delineare una netta separazione tra mercato e cultura, tra prodotto-oggetto e conoscenza.

    Ci sono istituzioni che cominciano a muoversi nel settore, e ritengo che sia una cosa positiva, ci sono molte iniziative interessanti, il “fermento” è un segno di vitalità, quindi ben venga. Spetta però agli addetti ai lavori come voi muovervi e farlo in modo assolutamente consapevole non solo dei benefici possibili (i “vantaggi” di cui parla Stefano – condivido), ma anche del contesto non solo culturale, ma anche storico-economico-politico, all’interno del quale vi muovete. A me piacerebbe che si difendesse con le unghie la separazione tra Cultura e mercato, e sono assolutamente convinto che non esista alcuna ineluttabilità nei “tagli” che si stanno operando.

    Io qualche idea su come procedere l’avrei, ma credo che sia meglio che siate voi, con le vostre conoscenze e ed esperienze interveniate a voce alta.
    Spero che il mio contributo serva a qualcosa.

    PS.
    Io non sono certo la persona che rifiuta il “nuovo”… da quindici anni sono in rete e ho cercato agli inizi di coinvolgere gli addetti ai lavori quando ancora internet era sinonimo di luogo “ambiguo”

    "Mi piace"

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.